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Storie di atleti politicizzati, ovvero quando sport e politica convivono insieme

Che rapporto c'è fra sport e politica? Si tratta di due mondi divisi, oppure spesso le due cose vanno insieme?

11 minuti di lettura

Essere atleta, secondo molti, va ben oltre l’essere un semplice sportivo. Effettivamente, e su questo ci sono pochissimi dubbi, un atleta è certamente uno dei personaggi più in vista del proprio presente storico. La sua faccia può essere conosciuta in tutto il mondo, è testimonial di varie campagne pubblicitarie, diventa in breve tempo l’idolo di bambini e adolescenti: sicuri che le gesta di un calciatore, di un corridore, di un pilota automobilistico debbano rimanere per forza di cose ancorate al recinto dell’ambito sportivo?

Calcio e politica in Catalunya

La situazione che sta vivendo oggi la Catalunya e l’intera Spagna è certamente tra le più drammatiche degli ultimi decenni. Ciò ha avuto una ricaduta anche sullo sport spagnolo, in particolare sul calcio. Nella fattispecie due simboli di Barcellona città (e, nel passato e nel presente, due simboli del Barcelona Fùtbol Club) si sono esposti sulla vicenda, prendendo una chiara e netta posizione. Non si tratta di una novità, poiché Pep Guardiola, attuale allenatore del Manchester City, e Gerard Piqué hanno da sempre manifestato le proprio idee indipendentiste, provocando, soprattutto per quanto riguarda il difensore blaugrana, feroci critiche dal resto della Spagna. Sport e politica, nel corso della storia, sono andate spesso a braccetto, e lo sport è andato ripetutamente in soccorso della politica, qualora ce ne fosse stato bisogno. Addentrandoci nello specifico, quali sono stati i gesti dei singoli atleti che hanno avuto un forte impatto sulla scena politica internazionale?

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Guardiola e Piqué durante un match.
www.101greatgoals.com

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Città del Messico 1968

In tal senso, l’episodio più celebre dei Giochi Olimpici (e, probabilmente, della storia di sport e politica insieme) avvenne al’Estadio Olimpico Universitario di Città del Messico, nel 1968. Da poco si era conclusa la finale dei 200 metri piani e tre atleti stavano per essere premiati. Come spesso capita nelle gare di velocità, due corridori erano statunitensi: si tratta di Tommie Smith (medaglia d’oro) e John Carlos (bronzo). Una volta ricevute le medaglie, i due ascoltarono l’inno nazionale americano con la testa bassa, senza scarpe e sollevando un pugno chiuso ricoperto da un guanto. È probabilmente l’immagine più iconica della storia dei Giochi Olimpici. Il messaggio è chiaro: è una manifestazione di solidarietà nei confronto delle Black Panthers, l’organizzazione che da un paio d’anni lottava per la liberazione degli afroamericani pesantemente discriminati. A differenza, per esempio, del movimento di Martin Luther King, le Pantere nere sostituiscono la non-violenza con il principio di autodifesa (self-defence), di fatto scivolando, qualche volta, dalla parte del torto. Smith e Carlos non trovarono solidarietà e appoggio dalla maggioranza degli atleti, soprattutto all’interno della nazionale americana. I due vennero espulsi dalle selezione statunitense e dovettero abbandonare il villaggio olimpico, mettendo così la parola fine alla loro carriera. Ciononostante, il secondo classificato in quella gara, l’australiano Peter Norman, al momento della premiazione indossò una spilla dello Olympic Project for Human Rights . Il corridore australiano si mostrò solidale con i suoi colleghi, ma proprio come capitò ai due atleti a stelle e strisce, anche lui ebbe un difficile ritorno in patria. Infatti la federazione del suo paese gli impedì di partecipare alle Olimpiadi di Monaco 1972, nonostante avesse conseguito il diritto all’ammissione grazie alle sue prestazioni cronometriche. Norman morì d’infarto nel 2006. Al suo funerale, la bara fu sorretta da due afroamericani  facilmente riconoscibili, nonostante fossero un po’ invecchiati: si trattava proprio del primo e del terzo classificato dei 200 metri a Città del Messico ’68.

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Sport e politica a Messico ’68: Smith e Carlos con il pugno chiuso.
www.lefotochehannosegnatounepoca.it

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Gesti veri o presunti?

Otto anni prima, alle Olimpiadi di Roma, la gara mitologica per antonomasia, ovvero la Maratona, lasciò tutti a bocca aperta. Trionfò un ragazzo etiope, Abele Bikila. Fu la prima medaglia d’oro della storia del continente africano, ma soprattutto, il magnifico corridore (che doppiò il successo quattro anni dopo a Tokyo) percorse i leggendari 42 chilometri e 195 metri che separavano Maratona da Atene senza indossare le scarpe. Erano gli anni in cui il continente nero si liberava dalla colonizzazione europea, e qualcuno vide nel gesto di  Abele Bikila un messaggio chiaro e preciso. In realtà, come è ormai risaputo, correre scalzo fu una decisione che il corridore etiope prese insieme al suo allenatore la sera prima e fu una scelta necessariamente tecnica, senza che ci fosse nessuna dietrologia. Nulla che legasse dunque sport e politica: Bikila non voleva mandare nessun messaggio, ma soltanto correre più veloce degli altri. Inutile sottolineare che quella dell’atleta etiope, morto prematuramente nel 1973, fu una decisione pienamente azzeccata.

Un altro episodio che per anni è stato fatto passare come un preciso gesto politico risale all’estate del 1978. L’attenzione del mondo si trasferisce in Sudamerica, precisamente a ovest del Rio de la Plata. In Argentina si disputano i mondiali di calcio, competizione che ha due nazionali nettamente favorite: da un lato i padroni di casa, dall’altro l’Olanda del calcio totale, finalista sconfitta nella precedente edizione e per questo desiderosa di rivincita. La finale annunciata si concluse ai supplementari, dove vinse l’Argentina grazie a uno straordinario Mario Kempes. La nazionale dei tulipani perse la seconda finale di fila, questa volta però, tra le sue fila, non militava il miglior calciatore di quella generazione: Johan Cruyff. Il più forte giocatore europeo di sempre decise spontaneamente di non partecipare a quella edizione della Coppa del mondo. Riannodando il filo della storia, si può notare che, in quegli anni, l’Argentina fosse tutto tranne che un paese normale, ammesso che lo sia sempre stato (nel bene e nel male). Sono gli anni della sanguinaria dittatura di Jorge Rafael Videla, dei desaparecidos, le cui madri da qualche tempo hanno cominciato a radunarsi in Plaza de Mayo. Per anni si è creduto che Cruyff non partecipò ai mondiali argentini in aperta polemica contro il regime di Videla, ma non fu così, come ha ammesso lo stesso protagonista. In quei mesi il calciatore olandese viveva un momento familiare molto delicato, in cui subì, nella sua casa di Barcellona, un tentativo di sequestro. Egli non si sentiva sicuro, così scelse di non abbandonare la famiglia per andare a soggiornare dall’altra parte dell’oceano. Fu un gesto altrettanto nobile, ma che, nella fattispecie, non ebbe nessuna rilevanza politica.

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Nonostante fosse certamente meno celebre di Cruyff, perlomeno per noi europei, Carlos Caszely fu un eccellente calciatore cileno, quasi contemporaneo del grande Johann. Lui sì, per tornare allo stretto legame che spesso unisce sport e politica, si scagliò apertamente contro la dittatura di Augusto Pinochet, tant’è che nei giorni del celebre referendum cileno del 1988 mandò un messaggio televisivo in cui annunciò che avrebbe votato NO, schierandosi apertamente contro il generale Pinochet, il quale da questo referendum avrebbe voluto uscirne da assoluto vincitore.

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La leggendaria maglia numero 14.
www.succedeoggi.it

Rio de Janeiro, 2016

Durante le Olimpiadi di Rio, estate 2016, abbiamo assistito a un gesto di una nostra connazionale, il quale, per qualche giorno, animò l’opinione pubblica. La schermitrice Elisa Di Francisca, fresca vincitrice della medaglia d’argento nel fioretto, festeggiò sul podio esponendo la bandiera europea (e non quella nazionale, come da protocollo), in uno dei momenti più bui della recente storia del vecchio continente. «Con questa bandiera voglio mandare il messaggio che l’Europa è unita e lotta contro il terrorismo», spiegò l’atleta. Certamente il gesto non sarà iconografico come i pugni al cielo di Smith e Carlos, oltretutto la finale del fioretto femminile non ha l’impatto dei duecento metri piani, ma ciò non toglie che, anche nel nostro presente storico, possiamo assistere ad atleti che hanno l’ambizione e il coraggio di esporsi e non essere ricordati solo all’interno del proprio ambito sportivo.

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La Di Francisca e la bandiera europea e, di nuovo, l’intreccio di sport e politica 
www.lastampa.it

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Giacomo Van Westerhout

Classe 1992, possiedo una laurea magistrale in ambito umanistico. Maniaco di qualsiasi cosa graviti intorno allo sport e al calcio in particolare, nonostante da sportivo praticante abbia ottenuto sempre pessimi risultati. Ho un debole per i liquori all'anice mediterranei, passione che forse può fornire una spiegazione alle mie orribili prestazioni sportive.

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