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Dalla trasposizione cinematografica, "La bellezza e la tristezza" (1985)

Consigli di lettura: «Bellezza e tristezza» di Kawabata Yasunari o “Il tempo del dolore”

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6 minuti di lettura

Immaginate uno scrittore 55enne di successo su un treno che da Kamakura lo porta a Kyoto. Immaginate che abbia un solo desiderio: assistere ai 108 rintocchi della campana di Capodanno di Chion-in, trasmessa via radio ogni anno. Grazie al suono di quei colpi – che per la tradizione shintoista rappresenterebbero il numero dei difetti che ogni uomo deve scacciare, uno ad uno – si dovrebbe accogliere, in religioso silenzio, l’arrivo del nuovo anno. Ma qualcosa stride, c’è di più: Toshio Ōki vuole reincontrare la pittrice Otoko Ueno, l’unica donna che abbia mai amato, portandolo egoisticamente a trascurare la moglie e la famiglia, di quindici anni più giovane di lui. A separarli, altrettanti anni di silenzio e un triste evento. Così si apre Bellezza e tristezza (1963, acquista) di Kawabata Yasunari, premio Nobel per la Letteratura del 1968.

Kawabata Yasunari, 1932 circa

Un filo appeso tra vita ed esistenza

A emergere sin dalle prime righe è la condizione di inesorabile solitudine che subisce Ōki – una solitudine che, scopriremo, coinvolgerà singolarmente tutti i personaggi, rinchiusi spontaneamente in un continuo processo di cristallizzazione. Cristallizzazione del tempo, del ricordo e dell’emozione, fino a farli diventare enormi pezzi di marmo a pesare sul cuore. Parola, questa, ripetuta nel romanzo dallo stesso autore come fosse una mirata coordinata spaziale all’interno del testo. A fare da contorno, come un presagio incombente, la realtà esterna, rappresentata, per esempio, in una poltroncina rotta di un treno di seconda classe.

«Le voci straniere che riempivano le due camere attigue acuivano la solitudine di Ōki, Gli tornò in mente la poltroncina che seguitava a girare da sola nel treno deserto e adesso gli pareva di vedere la propria solitudine mettersi a girare a vuoto in fondo al suo cuore».

A fare da tramite tra la vita – spesso pensata o immaginata – e l’esistenza, o a delineare la differenza tra queste due, c’è Keiko, la bellissima e giovanissima allieva (nonché amante) di Otoko, intenzionata a vendicarla per l’umiliazione subita: un amore clandestino, poi la gravidanza inattesa e una figlia persa poche ore dopo quel parto che le è costato un travaglio doloroso, la diagnosi della depressione e un biglietto per il reparto di Psichiatria.

E se Oki e Otoko si rivelano personaggi codardi, vittime/artefici del loro dolore e di una tradizione tutta giapponese basata sulla sottomissione e il silenzio, lo stesso non si può dire di Keiko. L’autore le affida infatti il ruolo di regolatrice di una giustizia inesistente, corte suprema di un tribunale che, quando si parla di sentimenti e sangue, non può esprimere il proprio giudizio.

Tutti i dolori di una donna

Basta andare avanti con la lettura per accorgersi che l’amore egoista provato da Ōki, e il dolore che ne consegue, non sono nulla di fronte a un altro dolore, questa volta viscerale, provato in modo diverso da ogni donna presente nel romanzo: oltre a Otoko e Keiko si dispiega in modo discreto, come si addirebbe a una geisha e, del resto, ad una buona moglie giapponese del XX secolo, il personaggio di Fumiko: incapace di perdonare il marito Toshio Oki, tenta invano di sublimare il proprio dolore abbassandosi al ruolo di donna copista per i testi del proprio uomo e attaccandosi, senza troppa convinzione, alla famiglia, ricoperta di una menzogna che ha la consistenza della pece.

Dunque, così come il numero dei rintocchi delle campane rappresenta la completezza della creazione, le donne raccontate da Kawabata Yasunari – Otoko con l’incapacità di dimenticare e tornare a vivere, Keiko con il dolore perverso che porta alla vendetta e Fumiko con la propria frustrazione – ci portano ad un’idea della condizione nipponica della donna a trecentosessanta gradi. Con un finale in punta di piedi da far fermare quel tanto nominato cuore e rivelarci che, in fondo, i quattro personaggi non sono altro che il risultato di un’operazione a organo aperto dei dolori dell’autore, morto suicida nel 1972 senza alcun biglietto a giustificare il gesto.

«Si sentiva incapace di continuare a squarciare con le sue stesse mani la ferita nel petto per meglio vedere. Così estrasse la lama dalla ferita. Ma vi era rimasta la cicatrice, e di quando in quando le faceva male».

 

Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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