fbpx
direttiva copyright parlamento europeo strasburgo
Fonte: www.europarl.europa.eu

Direttiva Copyright: perché è un bene che sia stata bocciata

/
6 minuti di lettura

Col voto contrario del Parlamento Europeo si è chiusa, almeno per ora, l’annosa vicenda della riforma delle norme che regolano il copyright dalla nostra parte dell’Atlantico. In linea teorica ci sarebbero ancora spazi per un nuovo esame a settembre ma, secondo il regolamento di Strasburgo, questo dovrà passare per l’aula emendamento per emendamento, creando molti più rischi per i sostenitori del testo e aumentando la possibilità di un nulla di fatto.

Politicamente, la direttiva aveva contrapposto gli editori e le società di gestione dei diritti d’autore al mondo del web, con in testa Google, Facebook e Wikipedia. I nodi del contendere erano due articoli specifici: l’11, che prevedeva l’introduzione di una “link tax” da pagare ai detentori di diritti anche con la semplice condivisione di materiale, e il 13 che avrebbe reso molto più stringente la tutela dei materiali protetti da copyright, andando a investire addirittura la creazione di contenuti satirici come i meme.

Entrambe le parti hanno le loro ragioni: gli editori – grandi o piccoli – faticano a innovare i loro modelli di business e vedono i ricavi assottigliarsi, mentre le grandi multinazionali del web fanno utili e raccolgono dati sfruttando materiale che non creano. Il quadro però non è solo economico: i più influenti teorici dell’internet libero, come la Electronic Frontier Foundation e, addirittura, il creatore del world wide web Sir. Tim Berners-Lee si sono schierati – in una inusuale eterogenesi dei fini – contro la riforma, sollevando giuste perplessità riguardo possibili forme di censura preventiva. Il testo, infatti, prevedeva che tutte le piattaforme (da Google, fino al più piccolo dei blog) si dotassero di strumenti – automatici o manuali – per il controllo dei contenuti caricati. Al momento solo i siti maggiori, come Youtube, sono riusciti a sviluppare un sistema di controllo preventivo che – peraltro – da seguito a una serie di falsi positivi difficili da correggere.

Il punto problematico principale, che il legislatore europeo fatica ancora a comprendere, è l’uso di strumenti normativi per arginare un fenomeno che andrebbe aggredito in altro modo, combinando un approccio tecnico a quello giurisprudenziale. Appare evidente come l’eventuale “link tax”, oltre a danneggiare proprio i creatori di contenuti che si troverebbero con molte meno visualizzazioni, sia impossibile da implementare tecnicamente e ancor più da esigere. Dovremmo immaginare una “polizia dell’internet” in grado di monitorare ogni singola condivisione? Come distinguere fra i link commerciali e quelli a titolo personale? Chi sarebbe incaricato di fare da “sostituto d’imposta”? La direttiva non rispondeva a nessuna di queste domande ma, anzi, delegava il legislatore nazionale a organizzarsi di conseguenza, col rischio di avere enormi discrepanze applicative nei ventisette paesi.

Leggi anche:
Facebook e il caso Cambridge Analytica. Ma ce l’abbiamo ancora una vita privata?

Come se non bastasse rimane la questione etica di fondo: possiamo delegare a dei privati il controllo preventivo di quanto viene pubblicato in rete? Soprattutto, è giusto farlo? Google, Facebook, Amazon e le altre piattaforme hanno già un peso enorme, di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto, delegando loro un pre-controllo sulla tutela del diritto d’autore significherebbe renderle ancora più potenti, non diminuire la loro influenza. Ogni piattaforma avrebbe potuto sviluppare un suo algoritmo privato, non sottoposto ad alcuno standard pubblico minimo e, dunque, avrebbe risposto più agli interessi aziendali che alla tutela del copyright.

Inoltre, e qui sta uno dei nodi cruciali, i social, ad oggi, sono il principale veicolo di accesso ai contenuti per gli utenti: nessuno naviga più direttamente sui siti ma ci arriva solo tramite link o condivisione. Il legislatore anziché intervenire su questo fronte – ormai praticamente inattaccabile – dovrebbe volgere lo sguardo più a monte, valutando se Google, Facebook e soci non siano passibili di un trattamento simile a quello riservato ad altri grandi monopoli storici, come la Standard Oil di Rockefeller o l’AT&T degli anni ‘70.

Il blocco della norma è una buona notizia: si trattava di un testo pasticciato e, cosa imperdonabile quando si parla di norme, molto poco chiaro, che lasciava una serie di ambiguità giuridiche e tecniche di difficile correzione. Ora occorre lavorare a una nuova norma europea che sia capace di tenere insieme l’innovazione tecnologica e le giuste necessità di tutela del copyright.

Nicolò Carboni

 

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.