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A scuola di educazione sessuale con anime e manga

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Chi è stato bambino negli anni ’80 e ’90 si ricorda bene una granitica dicotomia nei prodotti televisivi a cui aveva accesso: la prima era dominata da mamma Disney, con le sue principesse belle, forti, coraggiose e perennemente in cerca del principe azzurro (e, anche quando non lo cercavano, capitava loro un ragazzone niente male). Alla stessa categoria possiamo ascrivere anche tutti quei cartoni animati a puntate made in Rai, generalmente inseriti nei contenitori trasmessi il finesettimana: Tommy e Oscar, Dov’è finita Carmen Sandiego? e Kim Possible (tra l’altro, sempre creata dalla Disney) ne sono degli esempi. E poi c’era la seconda categoria, quella dei “cartoni animati giapponesi” che più tardi, dopo aver scoperto che erano adattamenti di storie a fumetti, avremmo imparato a definire anime.

Mentre di solito mamma e papà erano ben felici di piazzarci di fronte a Red e Toby, che insegnava tante cose sull’amicizia e sulla compassione, i prodotti animati nipponici non erano visti altrettanto di buon occhio; talvolta addirittura arrivava un’implacabile censura nei confronti di questo o quel cartone. La motivazione di solito era: è troppo violento, non va bene per i bambini.

Vero, il più delle volte. Chiunque di noi ricordi Freezer fatto a pezzi da un’onda energetica non può non ammettere che nemmeno le scene più traumatiche della Disney – come non citare la morte della mamma di Bambi? – raggiungevano tali livelli. Ma c’era un altro elemento che rendeva gli anime giapponesi meno adatti ai bambini delle sobrie storie di principesse e animali: l’erotismo nascosto, ma neanche troppo, dietro ogni vicenda, per quanto comica, drammatica, violenta o romantica potesse essere.

Proprio di questo si è occupata di recente Valeria Arnaldi nel suo saggio Corpi e Anime. Nudo ed erotismo nell’animazione giapponese. Nel saggio è esposta un’interessante tesi secondo cui la sessualità è sempre presente nell’animazione giapponese, spesso in modo del tutto esplicito. Questo è ovvio, ad esempio, per gli hentai, i manga per adulti che vanno dagli ecchi, opere in cui si dà largo spazio alla fantasia senza mai mostrare organi genitali o rapporti sessuali, a vere e proprie opere pornografiche, create per liberare l’immaginazione oltre il limite di ciò che nella realtà è consentito. Ma è vero anche per quelle storie che noi classificheremmo come “innocenti” e che, proprio in virtù di questa loro purezza, sono giunte in Occidente, anche se opportunamente censurate.

La motivazione di tutto ciò, se è lecito cercarne una, è duplice. Prima di tutto, i fumetti e i cartoni animati, che noi tendiamo a classificare come “prodotto per bambini”, in Giappone non sono affatto destinati solo ai più piccoli. I manga e gli anime, anzi, hanno un target ben definito: è comprensibile, dunque, come un prodotto destinato a ragazzi di 18-20 anni possa contenere anche riferimenti alla sessualità che i lettori comprendano e condividano.

Kimagure Orange Road, abbreviato in KOR, ad esempio, è un manga di genere shōnen, cioè destinato a un pubblico maschile tra i 12 e i 18 anni. In Italia è arrivato con il titolo di È quasi magia, Johnny! ed è stato sottoposto a grandi cambiamenti, i principali dei quali, come tutti gli anime di quel periodo, ha riguardato i nomi propri. Dal momento che i protagonisti sono tutti adolescenti, le scene in cui sono presenti riferimenti più o meno velati alla sessualità sono parecchie: in una di queste il protagonista, Kyosuke, si trova a fare un sogno erotico riguardante l’avvenente cugina, per poi svegliarsi nel suo letto tutto sudato e abbastanza imbarazzato. Nulla di esplicito viene mostrato, ma è chiaro che l’episodio fa riferimento a un’esperienza che qualsiasi adolescente maschio ha vissuto.

Il secondo e, forse, più importante motivo della presenza quasi prorompente della sessualità negli anime è riferibile alla maggiore libertà che i giapponesi tradizionalmente hanno nei confronti dell’elemento erotico. Sarebbe molto difficile, oltre che presuntuoso, cercare di spiegare la visione nipponica del sesso con la nostra mentalità occidentale, pregna di tanti tabù. In modo molto semplificato, però, si può dire che, se noi ci chiediamo perché mostrare tette, sederi o anche solo biancheria intima nei prodotti di animazione, in Giappone si chiedono: perché no? Non fanno, forse, parte anch’essi dell’esperienza quotidiana fin da quando siamo piccolissimi?

Così diventa piuttosto normale che le eroine dotate di poteri più o meno soprannaturali siano disegnate con forme generose, che non vengono certo lasciate all’immaginazione, e che ogni tanto “perdano” qualche reggiseno qua e là o che, in cambio di qualche favore, mostrino i proprio corpo a qualche vecchio pervertito (che, puntualmente, inizierà a perdere sangue dal naso). È normale che giovani donne facciano la doccia insieme e che i vapori dell’acqua non nascondano completamente la loro nudità o che le divise scolastiche siano talmente succinte da spingere a domandarsi a che cosa servano di preciso.

Normale? Sì, perché, come sostiene Valeria Arnaldi, tutto questo è fatto con innocenza e spensieratezza. Del resto, la malizia, come la bellezza, sta negli occhi di chi guarda. E, senza le oppressioni di una società che ancora risente molto dei tabù imposti dal cristianesimo, nulla di tutto questo è scandaloso. È solo un altro modo di esplorare il mondo e, per i bambini, un primo approccio alla nudità e alla sensualità del corpo.

 

Silvia Ferrari

Classe 1990, nata a Milano, laureata in Filologia, Letterature e qualcos'altro dell'Antichità (abbreviamo in "Lettere antiche"). In netto contrasto con la mia assoluta venerazione per i classici, mi piace smanettare con i PC. Spesso vincono loro, ma ci divertiamo parecchio.

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