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Humans of New York, oltre la fotografia

Un'idea semplice eseguita in maniera splendida quella di Brandon Stanton. Capace di trasformare ciascuno di noi in un personaggio unico

13 minuti di lettura

Humans of New York (abbreviato HONY), caleidoscopio di volti e storie di newyorkesi, ma non solo, nato dall’iniziativa di Brandon Stanton, fotografo e blogger statunitense classe 1984, è senza dubbio uno dei progetti fotografici meglio riusciti degli ultimi anni.

Dopo essersi laureato in Storia, Brandon ha iniziato a lavorare nel campo della finanza, ma quando, tre anni più tardi, ha perso il lavoro si è traferito a New York per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia. Qui ha iniziato a fare ritratti di sconosciuti e con le loro storie ha aperto nel novembre del 2010 un blog che presto ha riscosso moltissimo successo: oggi è seguito su Facebook da quasi 16 milioni e mezzo di persone.

HONY
© Brandon Stanton, New York, 20 ottobre 2014

I asked her what she felt most guilty about, and she said: «I can’t say it, because it will make me cry. And I don’t like people to see me cry». I told her that was fine and changed the subject, but after a few minutes she typed it out on her phone, and handed it to me: «When I was eleven years old, I got in a fight with my twin brother and told him that he was going to die before me because he had a brain tumor»
«Is he still alive?» I asked.
«Nope”».

Le ho chiesto per che cosa si sentisse più in colpa e ha risposto: “Non posso dirlo, perché mi farebbe piangere e non mi piace quando le persone mi vedono piangere”. Le ho detto che non c’era alcun problema e ho cambiato argomento ma dopo qualche minuto ha scritto questo sul suo cellulare, e me l’ha passato: “Quando avevo undici anni ho litigato con il mio gemello e gli ho detto che sarebbe morto prima di me perché aveva un tumore al cervello.
«È ancora vivo?», le ho chiesto.
«No»

Brandon Stanton
© Brandon Stanton, New York, 7 gennaio 2015

«I’ve watched a lot of people who did worse than me in art school go on to have their own shows, and I’ve decided that some people just know how to make moves. I always hoped that after I graduated, someone would discover me, but it doesn’t really work that way. You have to network and create opportunities, but I’m not good at that, because I get nervous and overly quiet in social situations. I normally end up getting discouraged, and going back to my basement to paint».

«Ho visto molti, che alla scuola d’arte andavano peggio di me, riuscire ad avere le loro mostre e ho capito che alcune persone semplicemente sanno quali mosse fare. Ho sempre sperato che dopo essermi laureato qualcuno mi avrebbe scoperto, ma non funziona proprio così. Devi crearti relazioni e opportunità, ma non sono bravo a farlo perché con gli altri divento nervoso ed eccessivamente silenzioso. Di solito finisco per scoraggiarmi e torno nel mio scantinato a dipingere».

Certo Humans of New York si presenta a un primo impatto come un progetto fotografico, ma è molto di più. Ogni ritratto, infatti, è accompagnato da un estratto della conversazione che Brandon ha con il soggetto dello scatto. Il talento con cui le didascalie vengono selezionate è straordinario; il lettore è sempre in grado di immedesimarsi nelle storie più o meno ordinarie ed è investito da una forte carica emozionale. Con poche frasi infatti Stanton sa riassumere sensazioni, situazioni, vite intere e il suo minimalismo espressivo più che efficace lo rende un fotoreporter fuori dal comune.

Humans of New York
© Brandon Stanton, New York, 2 dicembre 2014

«I’m trying not to hate my body. I love my hair and my hands, but everything else I wouldn’t mind switching out».

«Sto cercando di non odiare il mio corpo. Amo i miei capelli e le mie mani, ma non mi dispiacerebbe cambiare tutto il resto».

Quello che, senza dubbio, spinge migliaia di persone a seguire il suo lavoro è l’empatia che le storie che racconta riescono a suscitare: Humans of New York avvicina le persone e le spinge a mandare messaggi di solidarietà da tutto il mondo e a intraprendere numerose iniziative di beneficenza. Tra queste, la raccolta fondi che permetterà alla Mott Hall Bridges Academy di Brownsvilleun quartiere di Brooklyn con il maggior tasso di criminalità della città, di mandare i propri studenti in visita all’Harvard University e l’obiettivo di 100.000 dollari è stato raggiunto in appena 45 minuti. Ma da dove nasce quest’iniziativa?

Humans of New York
© Brandon Stanton

«Who’s influenced you the most in your life?»
«My principal, Ms. Lopez”
«How has she influenced you?»
«When we get in trouble, she doesn’t suspend us. She calls us to her office and explains to us how society was built down around us. And she tells us that each time somebody fails out of school, a new jail cell gets built. And one time she made every student stand up, one at a time, and she told each one of us that we matter».

«Chi ti ha maggiormente influenzato [positivamente] nella tua vita?»
«La mia preside, Ms. Lopez»
«Come?»
«Quando finiamo nei guai, non ci sospende. Ci chiama nel suo ufficio e ci spiega che la società è stata costruita attorno a noi. Ci ripete che ogni volta che uno studente lascia la scuola, viene costruita una nuova cella nelle prigioni. Una volta ha fatto alzare tutti gli studenti e ha detto ad ognuno di noi che siamo importanti».

Nel gennaio del 2015 Brandon ha ritratto un ragazzino, Vidal, e la sua testimonianza l’ha colpito così tanto che ha deciso di incontrare anche la sua preside, Ms. Lopez. Con lei ha organizzato una raccolta fondi di oltre 1,2 milioni di dollari destinati alla Scholarship Fund Vidaluna borsa di studio per gli studenti meritevoli.

Ma Humans of New York si è anche spostato dalla città in cui è nato: Brandon ha fatto reportage nel resto degli USA, in Iran, Iraq, Giordania, Israele, Congo, Kenya, Uganda, South Sudan, Ucraina, India, Nepal, Vietnam, Grecia e Mexico sempre con organizzazioni come la UNHCRUnited Nations High Commissioner for Refugees, agenzia delle Nazioni Unite creata per la salvaguardia dei rifugiati.

Humans of New York
© Brandon Stanton, Lesvos, Grecia

«Everyone here has been very nice to us. When we got to the beach, there were people there who gave us food and a hug. A priest even gave us this carpet to pray on. He told us: “We have the same God”».

«Qui sono stati tutti molto gentili. Quando siamo arrivati sulla spiaggia, c’erano delle persone che ci hanno dato del cibo e ci hanno abbracciati. Addirittura un prete ci ha dato un tappeto per pregare. Ci ha detto: “Abbiamo lo stesso Dio”».

Humans of New York
© Brandon Stanton, Gaziantep, Turchia

«Six months ago my father disappeared. He left one morning and didn’t come home. That morning he answered the phone one time, and he said: “I’m fine, Aya. I’ll be home soon”. And he never answered the phone again. […] But how could he leave me like this? How could he leave all of this on my shoulders? I’m twenty years old. I can’t handle all of this by myself. I don’t need him to work, or make money, but I need him. I need my Daddy. I can’t do this alone much longer. I’m getting tired. I’m a warrior and I’m strong and I’ve fought so much but even warriors get tired. […] If things don’t change for me, I think I’ll have to go back to Iraq».

«Sei mesi fa mio padre è sparito. Se n’è andato una mattina e non è tornato a casa. Quella mattina ha risposto al cellulare e ha detto “Sto bene, Aya. Sarò a casa presto”. E non ha più risposto. […] Come ha potuto lasciarmi così? Come ha potuto lasciare tutto questo peso sulle mie spalle? Ho vent’anni. Non posso sopportare tutto questo da sola. Non mi serve che lui lavori, o faccia soldi, ma ho bisogno di lui. Ho bisogno del mio papà. Non posso farcela ancora a lungo. Mi sto stancando. […] Se le cose non cambiano per me, penso dovrò tornare in Iraq.»

Quest’ultima testimonianza è di Aya, una ragazza irachena che ha dovuto sopportare gli orrori della guerra (prima a Baghdad e poi in Siria) e si trova oggi in Turchia, dove lavora come interprete. La sua richiesta di ricollocamento negli Stati Uniti è stata ultimamente respinta per «motivi di sicurezza». Ma Aya vuole solo avere la possibilità di finire i suoi studi in un paese che offra delle opportunità. La sua storia ha commosso (e indignato) molti ed è quindi nata una petizione a favore della revisione delle sue pratiche, che ha raccolto in pochi giorni un milione di firme. L’ennesima dimostrazione che Humans of New York, oltre la fotografia è diventato un fenomeno di massa in grado di apportare davvero un cambiamento positivo nella società.

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Camilla Volpe

Classe 1995. Prima a Milano, ora sotto il Vesuvio - almeno per un po'. PhD candidate in Scienze Sociali e Statistiche. Mamma e papà non hanno ancora capito cosa faccio nella vita.

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