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Storie di Sport. Le origini del mito dello sci italiano

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Dopo l’oro di Sofia Goggia alle Olimpiadi, l’Italia sembra essersi riscoperto un Paese di sciatori. Ma è sempre stato così? Ripercorriamo le tappe che hanno segnato un’epoca di questo sport.

Gli albori: Zeno Colò

L’eccellenza di una nazione in un determinato sport è dovuta una serie innumerevoli di fattori, tra cui certamente l’appartenenza a uno specifico contesto ambientale e un numero più o meno elevato di praticanti. Eppure, questi due fattori possono risultare assolutamente ininfluenti. Altrimenti, come potremmo spiegare la nazionale di calcio dell’Uruguay, da sempre nell’élite mondiale pur essendo un paese di poco più di tre milioni di abitanti (quanti Berlino e poco più di Roma e Madrid)? Oppure che dire delle straordinarie nazionali di pallanuoto ungheresi, nazione che non è nemmeno sfiorata dal mare? E l’Italia, invece, bagnata per tre quarti dal Mediterraneo che ha dovuto aspettare il 2000 per conquistare la prima medaglia d’oro nel nuoto, grazie agi storici 100 rana di Fioravanti? Il nostro paese, come ben sappiamo, possiede una straordinaria varietà morfologica, contraddistinta da due catene montuose, le Alpi e gli Appennini. È abbastanza naturale che, prima o poi, avremmo prodotto una ottima scuola di sciatori.

Eppure almeno inizialmente non fu tutto semplice per i nostri colori. Lo sci alpino è diventata una disciplina olimpica nel 1936, nei giochi invernali di Garmisch (Germania), disputatosi a distanza di pochi mesi dalla più celebre kermesse estiva berlinese, passata alla storia per le gesta dell’afroamericano Jesse Owens, vincitore di quattro ori sotto gli occhi glaciali e perfidi di Adolf Hitler. Quasi vent’anni dopo, precisamente nel 1952, ad Oslo, per la prima volta il tricolore italiano sventolò sul podio di una gara olimpica di sci alpino.

Zeno Colò tagliò il traguardo della pista di Norefjell in 2’30”8, creando il vuoto dietro di sé. Da quel giorno di febbraio, il 16 per l’esattezza, l’Italia entrò definitivamente sulla mappa dello sci mondiale. Sarebbe potuto essere l’inizio di una grande storia, invece dopo Zeno Colò l’Italia faticò enormemente a forgiare campionissimi. Per più di un decennio la spedizione azzurra scomparse dai radar, relegata in un angolo dagli altri paesi europei e mondiali. Difficile trovare una sola motivazione per questa dêbacle sportiva, in un paese che stava riemergendo piano piano dalle ceneri della guerra.

L’11 settembre del 1969 fu una giornata storica per lo sci alpino italiano: Gustav Thoeni vinse in Val d’Iser lo slalom gigante: si tratta della prima vittoria azzurra in Coppa del mondo, competizione nata tre anni prima ma fino al momento avara di successi per i nostri colori. Eppure, non è questa la data che viene assurta a simbolo dello sci alpino italiano. Per scrivere una pagina di storia dello sport ed entrare definitivamente nel mito bisogna attendere ancora qualche anno, una generazione formidabile e, da non sottovalutare, un titolista geniale.

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Zeno Colò lanciato in discesa.

L’origine del mito della Valanga azzurra

È il 1974: esplode un ordigno in piazza della Loggia, a Brescia, Nixon si dimette in seguito al Watergate e l’Olanda si prepara a cambiare radicalmente il gioco del calcio (nonostante la sconfitta in finale). Il 7 gennaio, il giorno dopo l’Epifania, l’atmosfera di festa natalizia si prolunga per un altro giorno. In Germania, allo slalom gigante di Bertchtesgaden, partecipano cinque sciatori azzurri. Questa è certamente una grande generazione di sportivi, che con l’inizio degli anni ’70 ha cominciato a ottenere vittorie importanti. Eppure nessuno si aspetta una escalation del genere.

Al termine della discesa l’ordine d’arrivo è il seguente: Piero Gros, Gustav Thoni, Erwin Stricker, Helmut Schmalzi, Tino Pietrogiovanni. Cinque su cinque, en plein. Nessuno ci era mai riuscito, la notizia fa il giro del mondo e coglie di sorpresa le grandi potenze sciistiche mondiale. Il commissario tecnico della grande Austria si pone qualche interrogativo: «Questi italiani fanno paura, dobbiamo rivedere tutti i nostri piani di allenamento.» I francesi, da sempre affascinati dalla grandeur, rimangono a bocca aperta di fronte al pokerissimo dei cugini transalpini. «Rimarrà una pietra miliare nella storia dello sci».

In questa storia Massimo Di Marco, giornalista della Gazzetta dello Sport, ha un ruolo importante quasi quanto il quintetto Gros-Thoni-Stricker-Schmalzi-Pietrogiovanni. D’altronde, Achille ed Ettore non debbono essere enormemente grati ad Omero? Il giorno seguente la Gazzetta utilizza parole che entrano di diritto nel mito: “Valanga azzurra”. Da quel momento quella straordinaria generazione di fenomeni verrà chiamata in questo modo.

La valanga azzurra fa incetta di ori olimpici e mondiali negli anni ’70, e i primi due di Bertchtesgaden (Thoeni e Gross) daranno vita a un dualismo che, a tratti, ha avuto il merito di richiamare alla mente il duello fra Coppi e Bartali. Nell’immaginario collettivo, Gustav Thoeni era l’archetipo del ragazzo educato, rispettoso, di buona famiglia, mentre Piero Gros, con quella lunga chioma, incarnava al meglio il clima di ribellione tipico degli anni ’70.

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La valanga azzurra.
www.newsbiella.it

Alberto Tomba, icona nazionale

Sia Thoeni sia Gross hanno imparato a sciare sulle Alpi, essendo uno trentino e l’altro piemontese. Eppure, non va dimenticato, il nostro paese possiede un’altra catena montuosa; ed è proprio sugli Appenini che comincia a muovere i primi passi colui che è probabilmente il più grande sciatore italiano di sempre, uno degli sportivi che ha maggiormente segnato un’epoca nella storia del nostro paese. Ovviamente, il protagonista in questione è Alberto Tomba, autentica icona nazional-popolare degli anni ’90.

Il palmares dello sciatore emiliano parla chiaro: 50 vittorie in Coppa del mondo (quarto migliore di sempre), tre ori olimpici e due mondiali. Ma i freddi numeri non rendono la grandezza di “Tomba la Bomba”, soprannome abbastanza rivedibile, specialmente per gli standard di creatività e genialità italiani. Il mito di Alberto è dovuta soprattutto alla sua capacità di incarnare perfettamente gli stereotipi (più o meno veritieri) dell’italiano. Caratterialmente estroverso ed eccentrico, ebbe il merito di far appassionare allo sci anche chi non era solito frequentare le piste invernali.

D’altronde è molto più facile identificarsi in un personaggio come Alberto, piuttosto che a qualche specialista tirolese, con un cognome difficilmente pronunciabile e una difficoltà ben visibile nel cimentarsi con la lingua italiana (qualità che, a onore del vero, era riscontrabile anche in Alberto, per motivi opposti). Oltretutto per un decennio è circolata la voce che il più grande sciatore italiano di tutti i tempi si limitasse a disputare solamente le gare tecniche escludendo le prove veloci (Discesa e Super-G) per non fare eccessivamente preoccupare la madre. Leggenda? Verità? Comunque sia tale diceria non ha fatto altro che incarnare perfettamente lo stereotipo dell’italiano mammone, incapace di recidere definitivamente il cordone ombelicale.

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Albertone nazionale.
www.wikipedia.org

Giacomo Van Westerhout

Classe 1992, possiedo una laurea magistrale in ambito umanistico. Maniaco di qualsiasi cosa graviti intorno allo sport e al calcio in particolare, nonostante da sportivo praticante abbia ottenuto sempre pessimi risultati. Ho un debole per i liquori all'anice mediterranei, passione che forse può fornire una spiegazione alle mie orribili prestazioni sportive.

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