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L’economia, ovvero una scienza sempre più triste

L'aumento del Pil è sinonimo di ricchezza e benessere. Ma queste implicano la felicità o declino?

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6 minuti di lettura

di Davide Cassese

Dalla disastrosa crisi del 2008 dei subprime americani sono passati quasi sette anni, ma siamo condannati ad ascoltare dai nostri policy maker sempre la stessa musica: bisogna crescere, bisogna aumentare il nostro Pil. Ogni giorno siamo martellati da stime abbastanza goffe e spesso discordanti circa la sua crescita. C’è chi è più prudente, come il FMI, chi – per ovvi motivi, cioè la volontà di suscitare speranza – più ottimista, come il governo. Ma la domanda da porci – senza alludere al suino – è questa: perché bisogna crescere? La domanda ha una risposta ovvia, ma non troppo immediata.

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Crescere significa produrre, dunque creare posti di lavoro, dunque creare domanda e investimenti e quindi, ad ogni modo, aumentare il nostro Pil. Ma perché questo possa accadere occorre che i nostri policy maker – dalla Bce, ai governi nazionali – pongano in essere delle strategie atte a cavarci dalla situazione spaventosa in cui ci troviamo. E come? Agendo sul sistema fiscale, sul mercato del lavoro – evitando di americanizzarsi troppo, dapprima nei termini e poi nei contenuti delle riforme – e sulla farraginosa, inceppata, e ormai obsoleta macchina burocratica, spesso simbolo di lungaggine e di ingessamento del sistema. Si assume, così, che crescere è sintomo di benessere, di ripresa, di respiro. Sì, in parte sì, ma non del tutto. Non è detto che livelli di crescita significativi, con altrettanto significativi aumenti di Pil, portino al benessere della collettività.

Il Pil è una grandezza che si fonda su stime: stime riguardanti le transazioni e gli aumenti di produttività. È un indice che riflette la crescita della Nazione in termini strettamente economici, ma non in termini legati al benessere e alla felicità dei soggetti. Infatti Richard Easterlin, professore di Economia all’Università della California, tramite un suo studio chiamato Paradosso della Felicità, ha dimostrato come la felicità dei cittadini non fosse correlata a un loro aumento di ricchezza e di reddito – che corrisponderebbe a un aumento del Pil, seguendo il mantra che ci viene proposto. Sono molti gli elementi che ci portano a non considerare il Pil come grandezza riflettente la serenità delle persone.

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L’aumento di ricchezza è senz’altro indice di maggiore soddisfazione, ma superato un certo punto la correlazione tra aumenti di ricchezza e felicità tende ad annullarsi. Ora bisogna capire se i nostri governanti vogliono crescere per aumentare il benessere della collettività o per fare un piacere alla professoressa Angela Merkel, che spesso ha esortato l’Italia a fare i compiti a casa. Bisogna capire se si vuole davvero utilizzare l’economia come strumento di analisi delle dinamiche collettive o se si vuole fare riferimento a questa scienza come strumento di sistemazione di interessi particolari. Le politiche di austerità prescritteci dall’Europa si sono rivelate assai poco utili e, anzi, sono risultate dannose e stagnanti, poiché deprimono ancora di più il nostro sistema, che si trova in uno stato comatoso. Non creano domanda, tagliano servizi essenziali, e devastano il tessuto sociale.

Allora bisogna tornare a guardare al benessere delle persone, alla loro soddisfazione, alla sostenibilità dell’ambiente e alle generazioni future. Bisogna avere il coraggio di stigmatizzare il consumismo terapeutico, che certo aumenta le transazioni, aumenta il Pil, ma renderà i soggetti sempre più meccanizzati ed asociali. La ricerca sfrenata del denaro, la sua adulazione, ha portato a un forte declino delle relazioni sociali. Si assiste a una alienazione del soggetto dalla comunità, poiché ci si accontenta di avere, sempre in quantità crescente, beni che possano compensare l’assenza di affetto, solidarietà e comprensione. L’effetto della riduzione verticale delle relazioni sociali porta a conseguenze drammatiche: la solitudine, la depressione e il forte stress. Specialmente negli Stati Uniti, luogo di forte prosperità economica, si ritrova un incremento del numero dei divorzi, la nascita di conflitti generazionali, la diminuzione di matrimoni e, ancor più allarmante, l’aumento del numero dei suicidi. Per sopperire a qualsiasi tipo di mancanza ci si rifugia in una terapia consolatoria ma distruttiva: il consumismo. Certo, aumenta il Pil, e di questo sarebbe contento Cetto La Qualunque, ma viene mortifica la gente, già troppo devastata da scelte scellerate, inconsulte, subdole e utili solo a dare dimostrazioni di esseri cinici che hanno scambiato il benessere e la sostenibilità della gente, con un bilancio da far quadrare.

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Redazione

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