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Referendum, le ragioni del No: intervista a Marco Travaglio

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Marco Travaglio, firma di spicco del giornalismo italiano, direttore de Il Fatto Quotidiano, è da lungo tempo impegnato nella battaglia in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre. Il rischio di una degenerazione maggioritaria con eccessivi poteri all’esecutivo è, secondo il giornalista, molto evidente nella riforma costituzionale.

Abbiamo incontrato Travaglio e ci siamo fatti spiegare più nel dettaglio le sue ragioni del No.

Direttore Travaglio, durante i suoi interventi lei argomenta spesso che le ragioni per votare No si possono rintracciare a partire dal metodo e dal modo con cui si è arrivati a questa proposta di riforma. Ci spieghi meglio.

«Partiamo da un dato semplice e non discutibile: nessuno ha votato Renzi e il Parlamento è stato eletto con una legge non costituzionale. Quando gli italiani si sono recati alle urne nel 2013 hanno mandato un messaggio forte e chiaro: stop alle politiche di austerità e basta a governi di larghe intese. Il risultato che abbiamo avuto sono stati ulteriori tagli alla spesa pubblica e un governo che andava dal Pd a Forza Italia. Ora, quando Renzi è stato nominato Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto traghettare l’Italia approvando quelle leggi di cui il paese ha bisogno. Dopo mille giorni di governo i principali risultati ottenuti sono una pessima riforma del lavoro, il Jobs Act, e questa proposta di riforma costituzionale. Venendo alla seconda, non possiamo non ricordare che il testo, concordato al Nazareno insieme a B., reca un titolo equivoco e provocatorio, che, diventando poi domanda referendaria, non può che influenzare l’elettore. Non si è inoltre mai visto che una riforma costituzionale venisse dai banchi del governo, mentre il parlamento rimane de facto muto. La stessa campagna elettorale del fronte del Sì rasenta livelli bassissimi. Il valzer del Presidente, che prima annuncia le sue dimissioni, poi ricorda che il voto del 4 dicembre è staccato dai destini del Governo, per poi dire che lui inciuci non ne farà se dovesse perdere la consultazione popolare, è incredibilmente disarmante. Come senza parole lascia la campagna referendaria fatta agli italiani all’estero, i quali hanno ricevuto, insieme al plico elettorale, una lettera da Matteo Renzi, il quale, come segretario di partito, ha chiesto a se stesso, come primo ministro, e al proprio ministro Alfano i recapiti dei residenti all’estero, così da mandare loro la propaganda del Sì. È evidente che siamo di fronte ad un paradosso».

Che ci sia un problema di metodo e di stile l’abbiamo capito. Ma cerchiamo di andare nel merito e capire perché questa riforma non va bene.

«Per capire le ragioni per cui la riforma è sbagliata, invito a vedere punto per punto lo spirito con cui le modifiche sono state fatte e verificare poi se questo sia stato atteso oppure no. Prendiamo, ad esempio, la necessità di superare un sistema bicamerale perfetto che ci ha dato 63 governi in 70 anni di storia repubblicana. Ora, tutti sanno che, fino l’avvento di Berlusconi, l’Italia è stata governata per più di cinquant’anni dalla stessa maggioranza imperniata sulla Dc e i suoi alleati, sia pure con diversi premier. Il cadere continuo dei governi è piuttosto allora da additare a dinamiche interne della politica o di un partito e non al testo costituzionale. E lo stesso vale per l’approvazione delle leggi, le quali non sono troppo lente a causa del ping-pong Camera-Senato ma che, piuttosto, sono troppe di numero. Abbiamo infatti una sovrapproduzione di leggi. Il problema è la cattiva qualità. Altro punto è il bisogno di una democrazia decidente, quella che Zagrebelsky chiama democrazia esecutiva. Ebbene, nella proposta di riforma il governo può dettare i tempi, la celeberrima “data certa”, di discussione di un testo. Tuttavia, tutti sanno che la lentezza dei processi legislativi non ha ragioni costituzionali ma politiche. Con la modifica proposta, piuttosto, quello che si fa è dare indebitamente potere al governo che potrà, a suo piacimento, imporre tempi brevi di discussione in nome dell’urgenza del decreto. Altra grande bugia è quella che si supererà il bicameralismo perfetto. Niente di più falso dal momento che il Senato avrà le stesse capacità di prima o quasi, perché anche laddove non avrà competenze specifiche potrà entro dieci giorni chiedere di ridiscutere un testo. L’unico risultato che si ha con questo nuovo Senato è che non avremo più il diritto di eleggere i nostri senatori e che vi entreranno i peggiori rappresentanti delle regioni, i quali svolgeranno un lavoro part-time e quindi inefficiente e godranno dell’immunità parlamentare. Vengo infine ad un quarto punto per cui credo questa riforma sia da rigettare. Viene detto che finalmente si supereranno i conflitti di competenza Stato-regioni. Eppure l’articolo 117, come ricordato bene da Rodotà e Zagrebelsky, non fa altro che rendere ancora più confuse le competenze tra Stato e regioni, oltre che esplicitamente spostare l’asse verso lo Stato, attraverso la centralizzazione di diversi settori, tra cui la gestione di energia, trasporti e sanità. Non solo, le regioni a statuto speciale sono completamente escluse dalla riforma e continueranno a godere dei loro privilegi come adesso».

Dalla sua descrizione, sembrerebbe che il testo non abbia nulla di positivo né nel merito né nel metodo. Eppure, rendere obbligatoria la discussione delle leggi di iniziativa popolare con 150.000 firme, abbassare il quorum dei referendum abrogativi e ridurre i costi della politica sembrano essere decisioni condivisibili. Cosa dice a riguardo?

«Diciamolo con chiarezza. Una cosa è obbligare il Parlamento a discutere le leggi di iniziativa popolare, su cui mi trovo completamente d’accordo, e un’altra è delegare ai regolamenti parlamentari, come si legge nell’articolo 71, e quindi ad una legge ordinaria, il fatto che questo sia applicato. Stessa cosa vale per i referendum abrogativi: certo va bene abbassare il quorum al 50%+1 dei votanti delle politiche precedenti, ma, allo stesso tempo, sono state aumentate da 500.000 a 800.000 le firme da raccogliere. Per quanto riguarda i costi della politica, qui la questione è tanto delicata quanto grottesca. La riduzione dei senatori e il non pagare loro indennizzi viene venduto come abbattimento dei costi, quando in realtà si risparmiano solo 50 milioni di euro. Ora la domanda è: ma la non elettività del senato vale appena 50 milioni di euro? L’elenco dei difetti della riforma potrebbe non fermarsi qui. Potremmo menzionare il fatto che lo statuto delle opposizioni sarà appannaggio della maggioranza o che questa riforma, in combinato disposto con la legge elettorale, presenta dei veri rischi per la stabilità democratica del paese. Ma mi sembra ci sia già abbastanza carne al fuoco. Tuttavia, con questo, chiaramente, non dico che questa proposta di riforma sia da rigettare completamente. Il richiamo alla trasparenza e alla parità di genere sono principi più che condivisibili. Eppure noi siamo chiamati a votare il testo in un pacchetto completo e personalmente gli aspetti positivi sono molto meno rispetto quelli negativi ed è per queste ragioni che ho deciso convintamente di votare No».

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Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

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