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“Santa Estasi”: Atridi, ritratto di famiglia. Ifigenia in Aulide

11 minuti di lettura

Finalmente al Piccolo Teatro di Milano dal 17 al 27 maggio, Santa Estasi, progetto speciale (Premio Ubu 2016) di un regista speciale come il napoletano Antonio Latella. L’idea nasce nel 2016 da un Corso di Alta Formazione all’Ert-Emilia Romagna dedicato alla tragedia greca antica, che si è poi sviluppato in una maratona teatrale: quindici attori under 30 e sette drammaturghi, impegnati nella realizzazione di otto spettacoli per una maratona di sedici ore. La scena è sempre la stessa, con lievi cambiamenti; gli attori sono tutti presenti, protagonisti, Coro o spettatori. Il tema? Gli Atridi.

Titolo e sottotitolo

«Estasi», ha spiegato Latella, significa soprattutto “andare fuori”. La parola allude non solo all’effetto catartico del teatro, ma a quell’entrare e uscire da sé che sperimentano gli attori, ma anche lo spettatore. Latella intende ristabilire quel dialogo di condivisione fra teatro e città che nell’antica polis di Atene era canale di comunicazione privilegiato e spontaneo, mentre oggi rischia di perdersi. Lo spettatore viene invitato a “uscire da sé”, per connettersi con un altrove mitico e poi tornare a una consapevolezza più ricca sul sé. Gli Atridi sono quindi l’archetipo: una famiglia terribile, dove i padri uccidono i figli e i figli orfani si ergono come vendicatori. Avidità di potere, sangue, massacri, incesti, smembramenti, cannibalismo: tutto inizia da qui, un magnete potentissimo dell’immaginario. Lo sguardo di Latella affonda quindi alle radici del mito, senza però perdere di vista l’oggi, in una miscela esplosiva che affianca la solennità tragica alle venature del comico, il mondo arcaico a quello moderno, senza soluzione di continuità. Il sottotitolo mira a sventare con ironia il rischio di monumentalizzare il classico: si tratta di “otto ritratti di famiglia”. Una famiglia come tante, una Dinasty “tragica” ma molto umana.

Primo Episodio: padri e figli

Disincanto, dissacrazione, cortocircuito, pur nella fedeltà al modello. È quanto si osserva fin dal primo episodio Ifigenia in Aulide, adattato da Francesca Merli. Il Teatro Studio cambia faccia: al posto dell’abbraccio, la visione frontale con gli spettatori seduti su una piattaforma a scalinata. Al centro, un lungo tavolo a cui prendono posto gli attori, in abiti moderni. Intorno, la riproduzione di una stanza borghese: divani, poltrone, un appendiabiti, perfino una bicicletta, un telefono, una TV, un fornello, un armadio. Sul lato, tre porte, che si spalancheranno a ricreare interessanti effetti di luce, e due enormi specchi sul fondo riflettono il pubblico. Unica traccia arcaica, un mazzo di spade sistemate in una ghiera.

Di grande impatto la prima parte, tratta dal Tieste di Seneca, a disegnare i contorni atavici della famiglia. Due fratelli nemici, Atreo e Tieste (Leonardo Lidi e Ludovico Fededegni), entrambi assetati di potere e disposti a tutto pur di conquistarlo, fra tradimenti, incesti, massacri. All’improvviso Atreo invita il fratello a palazzo, lo stringe in un abbraccio, vuole «ricomporre le membra della famiglia lacerata» e come prova della conciliazione gli offre il regno. Sul tavolo c’è un vassoio con bicchieri per un brindisi di vino rosso, troppo rosso. Intanto lo sportello del forno elettrico emana un bagliore sinistro ed ecco la scoperta dell’orrore: le carni imbandite sono quelle dei figli di Tieste! L’effetto splatter è solo nelle parole iperboliche di Seneca, perché la regia sceglie giustamente l’allusione, potenziata dal racconto straziante dei figli che descrivono il proprio massacro, con parole e corpo (bravissimi Alessandro Bay Rossi e Isacco Venturini). Il tutto, intorno alla presenza familiare del tavolo, dove i personaggi siedono, camminano, strisciano, sotto la luce spiovente dei riflettori, che illuminano loro e noi, mondi paralleli e in continuità.

© Brunella Giolivo

Il sacrificio in Aulide (Euripide)

Luce azzurra e sciabordio di onde. È passata una generazione e siamo ora ad Aulide: l’intera Grecia è accampata in una lunga attesa, pronta a partire con la flotta alla conquista di Troia. Il pretesto è recuperare la bella Elena, rapita da Paride, ma il vero movente è la sete di gloria. Per la prima parte della tragedia (da Euripide) si assiste al rovello di Agamennone, capo dell’esercito acheo, interpretato da un intenso Lidi. La sua primogenita, Ifigenia, dovrà essere immolata alla dea Artemide, per porre fine alla bonaccia che impedisce la partenza. «Darei tutto per Ifigenia, invece mi chiedono lei per tutto», così Agamennone sintetizza il suo dramma di padre. Accanto a lui, il fratello Menelao (uno scattante Fededegni), pronto ad argomentare pro e contro questa empietà. I due sono legati da un rapporto di amore-odio: pacche sulle spalle, parole amichevoli, ma anche scontri con la spada, innocue scaramucce dagli affondi sempre più rabbiosi: questi fratelli sono pur sempre figli dell’empio Atreo e restano impigliati in quella atavica rete di sangue. Quando infatti comincia a delinearsi una via di fuga e il sentimento potrebbe prevalere sulla Real Politik, ecco che Agamennone sceglie la via della Necessità.

Non riescono a smuoverlo la grazia infantile di Ifigenia (Federica Rossellini), né le suppliche della moglie Clitemnestra (Ilaria Matilde Vigna): questo sacrificio s’ha da fare. In questa seconda parte dello spettacolo Latella accentua alcune cifre stilistiche. Anzitutto la vista: il Coro, ridotto a due membri (Mariasilvia Greco e Barbara Mattavelli), rappresenta gli “occhi che guardano”. «Vedo», dicono a più riprese, mentre passano in rassegna i grandi eroi dell’esercito, brutali e violenti, affannati a costruirsi il proprio mito di gloria, pronti a calpestare leggi sacre e cadaveri. Le due corifee vedono e sanno, ma questo sguardo estraneo e straniante non vuole incidere sulle vicende, per paura e omertà, più forti della complicità femminile. «Zitte e mute dobbiamo stare», e l’impotenza si mescola forse anche all’inconfessato piacere di veder scorrere il sangue.

© Brunella Giolivo

Il tavolo, attraversato dai personaggi, continua a essere ribalta dei sentimenti, ma ora acquistano importanza anche le sedie: schierate in bell’ordine, capovolte, sbaragliate con furia dall’ira della madre, oppure coricate a terra in un groviglio sotto il tavolo: è quaggiù che striscia Ifigenia. Infatti, prima ancora di presentarsi in scena, nei pensieri di Agamennone la fanciulla è presenza sotterranea, creatura dell’inconscio. Poi le carezze si fanno pesanti, i baci filiali sono furiosi e alludono scopertamente alla possibilità dell’incesto. I rapporti sono dominati dalla violenza e da una sottile e pervasiva sensualità. Anche la musica (un violino) è stridente, mentre gli eventi precipitano.

La tensione tragica mostra però la contiguità con la commedia: acrobazie, inseguimenti e gag comiche dei messaggeri (Venturini e Bay Rossi), pianto assillante del bimbo Oreste (Christian La Rosa che dice «non voglio crescere» – certo, in una famiglia simile!), coperchi di pentole pronti a diventare scudi, in TV passa l’Enrico V di Kenneth Branagh (altra tragedia dell’attesa), Achille (Emanuele Turetta) è un bullo in cappellino e occhiali a specchio.

© Brunella Giolivo

Un’algida Clitemnestra, sicura della propria femminilità, guanti di pelle, occhiali da sole, cappotto e collo di porpora, supplica invano il marito di spezzare la catena degli avi: «se non mi vuoi spietata, non esserlo tu», invano. Anche Ifigenia si abbandona all’inevitabile. Il suo gesto perde però l’enfasi del patriottismo per colorarsi di nichilismo: «io sarò un nulla». La fanciulla si congeda in una danza orgiastica finale in solitaria, eccessiva e sopra le righe: fra i movimenti scomposti si riconosce il mimo del pugnale, e in una posa poetica si disegna sul muro l’ombra di una cerva. Ma è solo un lampo. Tutti, schierati sulle sedie, contemplano la danza sfrenata di Ifigenia che si offre alla morte. E di nuovo, come all’inizio, un’immagine speculare: noi, seduti e spettatori come gli attori in scena. Loro sono noi. Oppure noi siamo loro: ecco che cosa leggiamo nelle loro risate finali, dapprima un sussulto soffocato, che si allarga poi in una risata sguaiata. Ridono di noi? Del nostro crederci semplici spettatori? «Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti», direbbe De André. Gli Atridi siamo noi.

Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia / Ifigenia in Aulide
da “Tieste” Seneca e “Ifigenia in Aulide” di Euripide
adattamento di Francesca Merli  
regia di Antonio Latella
produzione ERT 2016
visto: 17 maggio 2018. Replica: 26 maggio 2018, h15 –  Piccolo Teatro Studio Melato, Milano

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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