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«Youth», ovvero la grande scommessa persa di Sorrentino

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12 minuti di lettura

Qualcuno definisce Youth di Sorrentino un capolavoro, per altri è solo frastuono. Qui di seguito una risposta alla recensione di Susanna Causarano pubblicata qualche giorno fa dalla nostra testata: stesso film, due opposte letture. Che si apra la discussione!

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C’è una lirica molto breve che apre la raccolta Mondadori delle poesie di Montale, si intitola In limine ed espone in pochi versi, servendosi dell’ermetismo caro al poeta, l’immagine dell’inattingibilità. Artista è colui che sa distinguere i segni lasciati cadere, le disattenzioni e gli scarti della natura: l’osservazione permette la sublimazione e diviene materia di conoscenza per il poeta – uomo comune, razza che rimane a terra. «Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!». Un invito dunque a cancellare l’evidenza fornita da un mondo capace di infiniti inganni: è dell’uomo il compito di non cedere alla lusinga, forgiandosi del ruolo di scopritore delle cose, oltre la banale, falsa, quotidianità.

Quando l’eccesso di autocitazionismo ingombra

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Sorrentino, nel suo Youth, cerca di arrogarsi il ruolo – difficilissimo – dello scopritore di segni. Al pari del poeta non laureato, si incunea nei pericolosi cunicoli dell’esistenza con lo scopo di decifrarne le intemperanze, i tic, i riti, le speranze e i rammarichi, scovandone i falsi miti. Eppure incede senza misura, inciampa nel suo proposito di bellezza non rinnovata, ridonda citando sé stesso senza riuscirci nemmeno troppo bene. Youth inganna sin dal titolo. Non c’è giovinezza nel film, se per giovinezza intendiamo la volontà di riflettere e scoprire cosa si annidi in questa pericolosa, vertiginosa, età della vita. Youth parla della vecchiaia, ma senza profondità, senza ricerca.

In Youth di Paolo Sorentino Fred Ballinger (Caine) e Mick Boyle (Keitel) sono amici di vecchia data. Si ritrovano, forse per antica consuetudine, tra le montagne della Svizzera, alloggiati in un lussuosissimo hotel – un po’ beauty farm, un po’ maison de thérapie – il primo per riposarsi, il secondo, regista a fine carriera, per terminare la sceneggiatura del suo ultimo film, una sorta di testamento artistico ante-mortem. Questo è il perno dal quale Sorrentino parte per tessere un film confusionario, patinato e un po’ ruffiano. Ruffiano per due ragioni: la prima è perché l’intellettualismo forzato al cinema funziona poco e male, o meglio, potrebbe funzionare se supportato da una ricerca profonda e raffinata, pari a quella che fa Desplechin in Francia, per esempio. Il regista d’oltralpe ricerca sì la complessità dell’umano, ma la racconta con parole semplici, sforzandosi di restituire veridicità alla sua ricerca di senso. Sorrentino è ruffiano perché conosce i suoi mezzi, sono rodati e hanno funzionato in precedenza. Dunque, sfruttando spudoratamente ciò che è già stato dato, ripropone stancamente vecchi schemi, lunghe carrellate, rallenty con effetto surrealista, panorami che ricordano le opere di De Chirico e musiche adatte al trasporto emotivo, senza, purtroppo, supportare “intellettualmente” ciò che cerca, a tutti i costi, di dimostrare. A voler essere sinceri, il film davvero cerca di raccontare qualcosa?

Dinnanzi alla presenza di due mostri sacri come Caine e Kaitel, il regista napoletano non è riuscito a trovare un briciolo di interazione, di sincerità d’intenti. I due personaggi sono amici? Se sì non ce ne siamo accorti. Non c’è dinamica, non c’è empatia, ma neppure odio, distanza o stanchezza. In una parola non c’è relazione. Non assistiamo ad un’amicizia, perché sebbene certe frasi ad effetto della serie «noi ci raccontavamo solo le cose belle», possano intenerire un certo pubblico dalla lacrima facile, non bastano a supportare la realtà di un rapporto, la complessità di una relazione – sebbene in tarda età.

Si obietterà che forse in Youth Sorrentino non voleva raccontare la realtà, ma solo mostrare certe allegorie, utilizzare i corpi per dire altro, per raccontare altro. Benissimo. E quale altro, allora? Se la sceneggiatura è debole, se le iperboli letterarie, visive e uditive risuonano senza sosta come eco di una già sentita melodia, allora si perde lo smalto della critica, della metafora capace di raccontare il mondo. Perché se mancano le battute, se manca lo slancio del personaggio che – per carità – può uscire da se stesso (ma deve farlo per dire altro, per fare altro), allora manca la spina dorsale e il senso si perde, scivola tra le collinette erbose dell’hotel-rifugio per ricchi annoiati, ammalati, invecchiati, non ispirati. I personaggi di contorno, poi, spiace dirlo – fa male dirlo – sono delle figurine intagliate nel cartone. Si sprecano gli stereotipi: la super bella che sembra stupida e bruttina, ma che si rivela dea sublime, baciata pure da una certa intelligenza; l’ex calciatore-prodigio in fase discendente, ma con malinconici ricordi di glorie lontane, attraversato forse da un’idea di redenzione; l’attore hollywoodiano che sa pensare e sa riflettere in barba a tutte le male-lingue che vedono nello star system americano solo “alcool, sesso e video tape”; la moglie bella e tradita che sa ricostruirsi una vita e che impara la strada della libertà; la bruttina stagionata che fa la massaggiatrice, ma che nella sua pelle liscia e traslucida incarna comunque un ideale estetico (quant’è bella giovinezza…), e via dicendo.

Youth la scommessa persa

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Peccato per una scommessa persa. Peccato perché in Youth di Sorrentino la sensazione è quella di una vera e propria crisi d’intenti da parte dello stesso Sorrentino. I problemi creativi vissuti dal personaggio interpretato da Keitel – difficoltà a trovare una sceneggiatura credibile, rapporto amore/odio con la propria attrice feticcio (Fonda) – non bastano ad esprimere la difficoltà del fare cinema oggi, unita alla volontà di trovare un linguaggio altro (è, per intenderci, lo stare «a lato» raccontato da Moretti nel suo Mia madre, ma con tutt’altra finezza e grazia). La giovinezza (o vecchiaia che dir si voglia) son perse per strada, seppellite dietro interminabili minuti irrorati da buoni sentimenti da occhio lucido, da dialoghi fragili fintamente mordenti (chi non ricorda il pungentissimo, geniale monologo di Servillo sulla terrazza romana de La grande bellezza?). Sorrentino si è seduto sui suoi clichés, vittima del suo stesso successo si è aggrappato alle misticheggianti inquadrature di visi, amplessi, boschi e persone, con l’intento di far sentire tutti un po’ più intelligenti della media oppure un po’ più stupidi. Sì, perché mettendosi fuori dal cinema a far domande sulla buona (o cattiva) qualità della pellicola, la maggior parte degli spettatori rispondono all’unisono «bellissimo!», come se fosse un peccato di stupidità affermare il contrario. Ma, scendendo nello specifico, andando ad indagare cosa è bellissimo e, soprattutto, perché, ecco che le parole mancano, che le definizioni non arrivano e il senso si perde, mascherato dietro doverosi complimenti. Se si scovano le debolezze e le incongruenze del film (perché diciamolo, le tesi, seppur complicate, bisogna saperle argomentare) si teme di venir tacciati con l’appellativo di faciloni, ignoranti, poco sensibili. Ma quando si indaga sugli opposti, sulle ragioni di tutta questa presunta “bellezza e profondità”, ecco che il terreno si fa scivoloso e il senso viene meno.

La prova fallita di Youth di Sorrentino

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Peccato per la prova fallita di Sorrentino che aveva saputo promettere molto, rinnovando le estetiche dello stanco panorama cinematografico italiano. Peccato perché le attese erano grandi (La grande bellezza aveva avuto il merito di seguire un filo conduttore lucido e preciso, capace di reggere alle poetiche fratturazioni del cinema sorrentiniano) e perché dinnanzi a Youth, vien voglia – quasi – di rimangiarsi la parola. Forse l’atto di responsabilità dell’arte e dei linguaggi, oggi, dovrebbe essere quello di prendersi il tempo della pausa, della reticenza gentile. Rinnovare i silenzi, gli spazi bianchi e i momenti di vuoto. Haneke ha fatto un grande film sulla vecchiaia, ma ne produce uno ogni tre anni; c’è modo e tempo per riflettere e creare. Moretti nel suo ultimo film racconta di crisi esistenziali, giovinezze e vecchiaie con grazia e compostezza rare. Sorrentino ha sbagliato, deviando dalla lezione dell’ermetismo che mette in guardia contro le false piste, i falsi raggiri che inducono l’uomo – e dunque l’artista – a sbagliarsi di senso, fraintendendo il vero linguaggio segreto: «Il frullo che tu senti non è un volo», solo stanco estetismo svuotato di poesia.

Ilaria Moretti

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