Nel pomeriggio del 27 gennaio di ottant’anni fa un’avanguardia di fanteria sovietica entrava nel complesso di Auschwitz, in Polonia meridionale, trovandovi circa tremila prigionieri superstiti. Gli ultimi nazisti erano fuggiti una settimana prima (dopo aver provato a distruggere quante più prove possibile) per concentrare le inutili, disperate difese intorno a Berlino, costringendo anche gran parte dei prigionieri ancora sani ad avviarsi allo sbando verso ovest, in quelle che vennero poi chiamate marce della morte. I liberatori rimasero sconvolti di fronte alla perfetta macchina da sterminio costruita nel 1940 come campo di lavoro e di concentramento, e poi adeguata alla soluzione finale nel 1942.
Al suo massimo sviluppo il complesso era costituito dal campo di concentramento di Auschwitz I, dal campo di sterminio di Birkenau (Auschwitz II) e dal campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III), oltre che da altri 47 sottocampi. Più di 1,1 milioni di persone vi trovarono la morte, tra stenti, omicidi, esperimenti di eugenetica e camere a gas. Tra lo spaventosamente essenziale edificio all’ingresso di Birkenau, i mucchi di effetti personali, la scritta Arbeit Macht Frei, Auschwitz è diventato il luogo per la Memoria per eccellenza, simbolo di quel che non dovrà mai più accadere.
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Alla fine dello scorso dicembre, il quotidiano polacco Rzeczpospolita ha diffuso la notizia che il premier israeliano Benjamin Netanyahu non avrebbe partecipato alle commemorazioni per l’ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Il rischio? Nientemeno che un arresto su mandato della International Criminal Court (ICC), emanato il 21 novembre 2024, che Władysław Bartoszewski, viceministro degli esteri polacco – e responsabile dell’organizzazione delle commemorazioni – aveva garantito di rispettare. Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant sono accusati di crimini contro l’umanità per ciò che hanno scatenato sulla Palestina a partire dal 7 ottobre 2023: impedimenti agli aiuti internazionali, utilizzo della fame come strumento di offesa, uccisioni e persecuzioni, il tutto con la volontà di distruggere parte della popolazione palestinese.
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La notizia, passata in sordina, aveva acceso un lumicino di illusione per chi è interessato alla questione palestinese: la presenza di qualunque leader israeliano alla commemorazione di un genocidio sarebbe stata un’evidente contraddizione in questo momento storico, e forse avremmo finalmente visto un atto di un certo peso simbolico. Speranze mal riposte. All’inizio di gennaio il presidente polacco Andrzej Duda ha invitato il premier Donald Tusk a garantire una permanenza senza ostacoli a Benjamin Netanyahu. E così entro pochi giorni, il 9 gennaio, la Polonia ha cambiato idea: il premier israeliano avrà la possibilità di raggiungere le commemorazioni, senza alcun pericolo di essere arrestato per i crimini di cui è accusato. Nel momento in cui questo articolo viene scritto, Netanyahu non ha ancora confermato o meno la sua partecipazione.
Qualcuno ha timidamente cercato di metterci una toppa: l’11 gennaio la Commissione europea ha ricordato che tutti i 27 stati dell’Unione devono rispettare il mandato di arresto emanato dalla Corte penale internazionale, senza eccezioni. Piotr Cywiński, direttore del Museo di Auschwitz, ha invece precisato che nel corso delle commemorazioni non si darà spazio a discorsi politici, ma solo a testimonianze di sopravvissuti; ha aggiunto che la discussione in corso sulla partecipazione di Netanyahu è solo una provocazione mediatica, e che è certamente prevista la presenza di una grande delegazione israeliana.
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La vicenda è grottesca, a prescindere da quel che accadrà tra due settimane. Non solo per il rimbalzo di decisioni, per l’ipocrisia di chi non vuole prendersi responsabilità di fronte a una contingenza così fondamentale per la memoria storica e per la totale mancanza di coordinamento. La questione peggiore è il paradosso per cui uno stato che sta portando avanti una serie di crimini di guerra contro una popolazione sia ancora considerato l’ideale custode della memoria dell’Olocausto nazista. Il tutto con gli occhi del mondo puntati addosso e una cieca certezza di impunità.
Si potrebbe ribattere che Israele è nato dalle ceneri delle persecuzioni a cui fu sottoposto il popolo ebraico nell’Europa dei totalitarismi, che quel pezzo di terra è stato il “risarcimento” donato dalle nazioni del mondo dopo che Hitler aveva superato ogni limite coi suoi progetti. D’altronde è quello che ci insegnano a scuola, nonché il motivo per cui, secondo alcuni, dovremmo ancora chiudere un occhio di fronte a ciò che Israele ha fatto e sta facendo. «Dovranno pur difendersi», l’abbiamo sentito spesso.
Non dobbiamo però dimenticare che le radici del sionismo vanno ricercate un più indietro nella storia, e questo movimento nazionale non è nato esclusivamente in reazione alle persecuzioni. E allo stesso modo pensare che l’Olocausto nazista sia stato il culmine dell’odio umano in una storia lineare ci fa abbassare la guardia. Funziona per costruire un mito nazionale forse, e per convincere gli israeliani (e i loro sostenitori) che stanno vivendo il loro lieto fine e che devono difenderlo chi vuole rubarglielo. Ma la storia non funziona così, ha i suoi alti e bassi in cui un re può perdere la testa all’apice del suo splendore e in cui la vittima diventa carnefice appena ne ha la possibilità.
Dobbiamo accettare che Israele non rappresenta più né l’eredita del genocidio nazista né il popolo ebraico per intero. E se può accusare di antisemitismo chiunque si opponga alle sue politiche (o semplicemente le denunci), senza ricevere mai risposte decise o conseguenze, è evidente che siamo ancora pervasi da una propaganda costruita per decenni. Israele poggia gran parte della sua identità sul confine che c’è tra l’antisemitismo e l’antisionismo, e se questo gioco ha successo è solo perché gli interessi in campo sono grandi (economicamente e ideologicamente) e la voglia di informarsi sull’argomento è troppo poca.
Il leader di uno stato – per molti genocida e colonialista – gode del sostegno incondizionato di chi dovrebbe prendere delle posizioni forti e rivoluzionarie. L’Olocausto nazista, commemorato ogni anno in modi non sempre critici ma quasi solo retorici, non fa che rafforzare la potenza di questa carta, sempre nelle mani di Israele. Cosa commemoriamo allora? Che “memoria” stiamo tutelando? A cosa servono i programmi televisivi, le lezioni a scuola, i film, i libri, gli articoli di giornale, i servizi al tg e alla radio, gli spettacoli a teatro, i dibattiti, i minuti di silenzio, le lacrime e le corone di fiori che alla fine di ogni gennaio diventano protagonisti della cronaca mondiale?
Riaprire certe riflessioni non significa sminuire l’Olocausto nazista, anzi, è un servizio da rendere ai suoi milioni di vittime per rinnovare il ricordo di una delle pagine più dolorose della storia. Ma pensare a queste cose ora ci disturba perché ci mette davanti a un’amara verità: la storia non ci insegna proprio nulla. Quel che Israele sta facendo ne è una prova schiacciante: la stessa sofferenza che, nella propaganda sionista, ha permesso la sua nascita ora è utilizzata per giustificare un ulteriore massacro.
A questo punto forse, più che illuderci di evitare gli stessi errori (che si accumulano in abbondanza fino a non farci più capire cosa è giusto e cosa sbagliato), dobbiamo lavorare sulla formazione e sulla cultura, per far uscire il genocidio ebraico (e delle altre categorie) dalla retorica attuale. E se lo stato di Israele si vuole ergere a primo difensore della Memoria, dovrebbe essere il primo promotore di diritti umani e della convivenza pacifica tra popoli.
Qualcuno ci prova a fare rumore. Ma ancora una volta sarà un rumore ignorato, al più di sottofondo, come gli spari e le urla che accompagnano The Zone of Interest (Jonathan Glazer, 2023), in cui il comandante di Auschwitz Rudolf Höß e la sua adorabile famigliola vivono imperturbati dagli orrori che li circondano. Vogliamo compiere un atto di vera Memoria? Rileggiamo La banalità del male, il reportage che la filosofa Hannah Arendt scrisse del processo cui lo Stato di Israele sottopose il colonnello nazista Adolf Eichmann nel 1961 e che si concluse con una condanna a morte. Diceva la Arendt, riferita ad Eichmann, che «[in questo processo] si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo». Fa venire i brividi realizzare che questa frase potrebbe riferirsi a un criminale di guerra sia nazista sia israeliano.
Chiediamoci anche quale messaggio arrivi alle giovani generazioni che si vedono davanti simili contraddizioni – e se ne accorgono. La lezione che passa è sempre quella: qualcuno è inattaccabile, e il successo arriva quando ti fai degli amici abbastanza potenti da coprirti le spalle in ogni occasione. Il mondo dei grandi dovrebbe farsi qualche domanda sul mondo e sul sistema di valori che sta consegnando al futuro. Finché l’eccezione sarà la regola, siamo destinati a rivivere dieci, cento, mille olocausti.
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Bellissimo articolo. Viene anche da chiedersi se sia giusto disegnare nazioni sulla carta, come un mondo impaziente di risolvere il problema millenario della diaspora sbrigativamente fece dopo la seconda guerra mondiale con Israele, creando la crisi di rigetto e l’infezione che da allora infiamma il Medio Oriente e il mondo. Israeliani e palestinesi condannati ad essere attori di questa eterna tragedia.