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«L’acqua del lago non è mai dolce» di Giulia Caminito

19 minuti di lettura

Lo scorso 13 gennaio, la giovane scrittrice Giulia Caminito ha pubblicato con Bompiani il suo nuovo romanzo L’acqua del lago non è mai dolce (acquista), dimostrando ancora una volta grandi capacità narrative e un’ottima padronanza dello stile, al punto da essersi meritata un posto nella cinquina finalista del Premio Strega 2021.

La trama del romanzo

Per descrivere al meglio L’acqua del lago non è mai dolce è meglio partire dalle seguenti parole tratte dalla motivazione dello scrittore e Amico della Domenica Giuseppe Montesano nel proporre il romanzo dell’autrice romana al Premio Strega 2021:

«[…] una storia ambientata nel paese lacustre di Anguillara Sabazia, una provincia italiana simile e diversa da molte altre province letterarie: dove le case popolari si intrecciano alle villette, all’antico centro storico, al lungolago e ai capannoni in uno sviluppo disarmonico che rispecchia e genera le disarmonie del vivere, uno sviluppo malato nel quale si annidano oscuri i conflitti».

Questo romanzo, infatti, narra la storia di Gaia, che seguiamo dall’infanzia fino agli anni dell’università per un arco di tempo che va dagli anni Novanta fino agli anni Dieci del Duemila, periodo storico contraddistinto da eventi come il G8 di Genova, la Legge Bossi-Fini, l’ascesa di Facebook, MSN e la presenza dei primi Motorola.

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Originaria di Roma, La protagonista è costretta a trasferirsi con la sua famiglia ad Anguillara Sabazia, ai piedi del lago di Bracciano, a seguito di uno sfratto esecutivo. In questa provincia che, come ha sottolineato Montesano, ha il sapore di una provincia letteraria, Gaia non solo si confronta con i problemi tipici dell’adolescenza – i primi amori, le prime amicizie, la consapevolezza del proprio corpo –, ma combatte anche con le sue frustrazioni e una certa inquietudine esistenziale che contraddistingue tutta una generazione di giovani che si sono confrontati con un vuoto ideologico e istituzionale che li ha lasciati senza direzione.

«L’acqua del lago non è mai dolce»: analisi del testo

Come punto di partenza per analizzare L’acqua del lago non è mai dolce, sarebbe meglio concentrarsi su ciò che spiega Giulia Caminito nella nota poste in appendice al romanzo:

«Questa non è una biografia, né una autobiografia, né una autofiction, questa è una storia che ha ingoiato frammenti di tante vite per provare a farne un narrazione, il racconto degli anni in cui sono cresciuta, dei dolori che ho solo circumnavigato e di quelli che ho attraversato».

Nonostante l’autrice faccia riferimento sia a persone reali come fonte d’ispirazione per alcune protagoniste del romanzo che alla sua esperienza personale, L’acqua del lago non è mai dolce non è da considerarsi in nessun modo appartenente al genere della biografia, dell’autofiction o dell’autobiografia. L’intento di Giulia Caminito, infatti, non è parlare di se stessa o di Antonella e Ilaria – dietro alle quali si celano sicuramente le “personagge”, come scrive l’autrice, di Antonia e Irisma partire da queste vite per raccontare il vuoto ideologico e lo smarrimento che ha contraddistinto – e continua a caratterizzare – la storia recente del nostro paese.

L’acqua del lago non è mai dolce
Copertina del romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce”, a cura di © Bompiani

Raccontare, però, la Storia richiede una certa distanza. In questo senso l’autrice si è mossa adottando una prospettiva in prima persona, quella di Gaia, che risulta avere una voce rabbiosa e individualista fortemente marcata che consente ai lettori di maturare la giusta distanza per osservare e giudicare ciò che viene raccontato. Allo stesso tempo, nonostante l’accentuato individualismo, è possibile comunque immedesimarsi in Gaia, poiché la storia da lei vissuta riguarda tutti noi.

La storia di Gaia è universale perché s’intreccia con la storia ufficiale, come spesso capita nei romanzi della scrittrice francese Annie Ernaux. Il cammino di consapevolezza che la protagonista intraprende, la sua rabbia caotica e il maturato riconoscimento del proprio immobilismo sono espressione della stasi, della violenza e del vuoto istituzionale e ideologico tipici della nostra storia recente.

L’ambientazione tra periferia e provincia: Roma e Anguillara Sabazia

L’universalità di ciò che viene raccontato è data anche dall’ambientazione della periferia, che riguarda sia Roma, in particolare via Monterotto 63 e corso Trieste, che Anguillara Sabazia, ma allo stesso tempo può, come ogni provincia letteraria che si rispetti, riferirsi a qualsiasi luogo periferico:

«Viviamo in un quartiere che a mia madre non piace chiamare periferia, poiché per essere periferia devi aver presente quale sia il tuo centro e noi quel centro non lo vediamo mai, io non ho mai visitato il Colosseo, la Cappella Sistina, il Vaticano, Villa Borghese, piazza del Popolo, noi le gite con la scuola non le facciamo e se esco è per andare con mia madre al mercato rionale».

Nonostante quanto detto da Gaia, la periferia continua a esistere, ma ingloba anche il centro. Tutto è periferia, poiché il disagio vissuto dalla giovane è una situazione condivisa. Indice di questo sono, per esempio, le scuole medie frequentate dalla protagonista, dove «si incontrano i ragazzi dei quartieri più popolari come Ottavia o Palmarola e quelli delle famiglie borghesi che arrivano dai comprensori coi cancelli automatici all’ingresso e trecento citofoni tra cui scegliere», il liceo dei ricchi, dove «i muri si sfarinano» e il confine fra la periferia e il centro si fa poroso, ma anche l’indifferenza e la solitudine, che non solo contraddistinguono il condominio ricco di corso Trieste, ma anche il paese di Anguillara Sabazia:

«Se non sai come vengono indicati i luoghi porti la colpa dell’essere straniero, il figlio di nessuno, loro non sanno chi voterai alle elezioni, chi è il tuo medico di famiglia, che carro costruirai per Carnevale e se friggi lattarini alla Sagra del pesce, non sanno come chiederti favori quindi non vogliono fartene, alla posta non ti salutano, dal macellaio ignorano se dici che è il tuo turno, perché è sempre, in ogni caso, il turno loro».

Sia la periferia romana che Anguillara Sabazia sono connotati anche da una certa trascuratezza che mette ancora più in luce la situazione di abbandono vissuta da Gaia e dalla sua famiglia. Nei giardinetti di Roma, per esempio, Antonia nota subito le siringhe lasciate dai tossici, mentre ad Anguillara Sabazia vi sono pochi luoghi d’interesse, e il lago di Bracciano è descritto come «lingua di carbone, odore di alghe limacciose e sabbia densa», e si fa persino riferimento al fatto che sia contaminato, poiché la sua acqua ha il sapore della benzina.

L’asprezza del lago rispecchia alla perfezione lo stato d’animo di Gaia:

«Ho gli occhi aperti, ho gli occhi rei, pedalo lungo le curve d’asfalto, passo accanto alle pareti di quello che molto tempo fa era un vulcano, perché questo è il nostro lago: il risultato di una implosione».

Il lago di Bracciano è, dunque, un cronotopo, luogo che rispecchia la rabbia e l’immobilismo non solo di Gaia, ma anche di tutti gli altri protagonisti della storia che vivono con rassegnazione la propria realtà. La protagonista, infatti, osserva il lago «cupo ai miei occhi, immobile, non emette alcun suono, sembra moribondo, caduto in un sonno immobile».

La “personaggia” di Antonia: madre coraggio che resiste

Una figura sicuramente molto interessante, che nonostante la rassegnazione continua a resistere e a lottare, è quella di Antonia, la madre di Gaia. Lei è espressione di un modo moderno di intendere la famiglia. La sua, infatti, è una famiglia allargata dove lei è il capofamiglia, colei che porta tutto il peso sulle spalle dopo il grave infortunio sul lavoro del marito Massimo, che realizza le cose da sé senza aspettare l’aiuto provvidenziale dall’alto e che cerca di sostenere i figli nella costruzione del loro avvenire.

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Antonia è «l’eroina di un fumetto, Anna Magnani al cinema, lei che baccaglia, lei che non si arrende, lei che li fa stare zitti tutti», «quella che regge da sola le mura nel crollo, che ci porta in spalla dalla casa in fiamme». Lei è la madre coraggio di brechtiana memoria, consapevole degli errori commessi in gioventù e della miseria in cui vive, ma che lotta e resiste per far sì che i figli non cadano nel suo stesso errore.

Nonostante la sua rassegnazione verso una realtà fatta di mancanza di alternative, questa madre coraggio ripone le sue speranze nella protagonista:

«[…] mi domando perché si accanisca, cosa voglia per me, cosa stia progettando e proiettando, […] se adesso si sia resa evidente la mia insignificanza, se lei voglia a ogni costo imbottirmi, come reggiseno, come quaglia e cappotto».

Antonia è la madre che pretende che la figlia legga i libri difficili che la bibliotecaria le ha assegnato, che la manda a studiare a Roma perché «l’unica figlia femmina deve saper studiare, eccellere», che non vede di buon occhio Cristiano, poiché desidera che Gaia frequenti persone migliori di lei. Lei vuole, dunque, che la protagonista non ripeta i suoi stessi errori e che cerchi di dare un ordine al suo caos e di trovare un posto nel mondo dove realizzarsi, facendoglielo capire con la stessa durezza che la vita le ha riservato:

«Mi fa sentire molto da meno, un fallimento, una caduta, un ingranaggio spezzato, un pendolo fermo alle sei del mattino quando ormai è notte fonda: fuori fase, balorda, non so dove cercherò, non so a chi chiederò, come mi arrangerò, perché non so arrangiarmi, io so attendere che mia madre mi arrangi».

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Gaia: «donna spezzata, opaca, di sangue»

Gaia cerca in tutti i modi di accontentare la madre, ma il suo non è tanto un percorso di formazione che porta a cambiare la sua situazione, quanto di consapevolezza dell’incapacità di «scantonare, girare l’angolo della vita». La protagonista sa bene fin dall’inizio che deve lottare da sola per ottenere il suo posto nel mondo. Realizzarsi è per lei difficile, poiché «non verrai difeso, accudito, abbeverato, ripulito, salvato per sempre, arriva il momento in cui tocca a te stare nel mondo, e questo è il mio».

La ragazza, infatti, imparerà a sue spese la solitudine, il tradimento e la rabbia, sentimenti che coltiva nel rapporto con gli altri, arrivando alla conclusione che «non c’è mai stato un luogo per me, un mio stare al posto adatto». Gaia non riuscirà mai a trovare un modo per uscire dalla sua stasi, e alla fine dei suoi studi universitari si sentirà una «massa senza dimensioni o profondità, inutile agglomerato di nozioni», confermando, così, il suo immobilismo.

La consapevolezza di restare prigioniera della propria rabbia e inquietudine esistenziale giunge grazie al lago di Bracciano. Il lago di Bracciano è un lago vulcanico, così come lo è  il lago Averno, vicino Napoli, che dà il titolo alla raccolta di poesie del 2006 del Premio Nobel della Letteratura 2020 Louise Glück. Come l’io lirico di Glück, anche Gaia vede nel lago di Bracciano un luogo di passaggio dall’età dell’innocenza all’età della consapevolezza.

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Se l’io lirico della poetessa americana entra come ragazza nell’Averno per ritornare una donna segnata dalle ferite della vita che mai si rimargineranno, per la protagonista del romanzo il lago di Bracciano è il posto che svela la sua vera natura: quella di «donna spezzata e opaca, quella che si rifrange sulle superfici e la vedi sempre a metà». Una donna «di sangue», che non può sopravvivere alla rabbia e alla sofferenza, che non troverà mai un senso nella vita e non riuscirà mai a completarsi, eternamente in cattività in un luogo che non le appartiene. Questo sentimento di cattività è ben espresso dalla similitudine dei cigni del lago:

«Io sono stata un cigno, mi hanno portata da fuori, mi sono voluta accomodare a forza, e poi ho molestato, scalciato e fatto bagarre anche contro chi s’avvicinava con il suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore».

L’unica cosa che resta da fare a Gaia, pertanto, è accettare con rassegnazione il suo essere incompiuta, ma tuttavia restare a galla con la speranza di cercare la felicità e il suo posto nel mondo.

«L’acqua del lago non è mai dolce»: conclusione

Come afferma Giuseppe Montesano nella suddetta motivazione per la sua proposta del romanzo al Premio Strega 2021:

«E colpisce il modo in cui la Caminito sa cogliere una realtà contemporanea tracciando una parabola sociale che punta inesorabilmente verso il basso: dalla testarda speranza con cui la madre tenta di restare a galla in un mare di ingiustizie, alla sconfitta desolata della figlia che affonda in un’acqua avvelenata dal risentimento, appesantita da miraggi scadenti e da una cultura che promette ma non mantiene».

Con una prosa limpida, diretta, distante ma allo stesso tempo poetica e commovente, Giulia Caminito scrive con L’acqua del lago non è mai dolce un romanzo che attraverso la storia individuale di Gaia sa cogliere la storia della nostra contemporaneità: una storia di crisi, rabbia e ingiustizie, ma soprattutto la storia di chi resiste e resta a galla cercando di sopravvivere con la speranza di un mondo migliore.

Immagine in evidenza: dettaglio della copertina.

 


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Alberto Paolo Palumbo

Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee all'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca.
Sente suo quello che lo scrittore Premio Campiello Carmine Abate definisce "vivere per addizione". Nato nella provincia di Milano, figlio di genitori meridionali e amante delle lingue e delle letterature straniere: tutto questo lo rende una persona che vive più mondi e più culture, e che vuole conoscere e indagare sempre più. In poche parole: una persona ricca di sguardi e prospettive.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda.

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