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L’ambivalenza dell’essere migliore

Migliore, in scena dal 24 al 29 gennaio: un tutto esaurito più che giustificato per Valerio Mastandrea che si presenta sul palco del Franco Parenti di Milano solo a interpretare un monologo di Mattia Torre.

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Un tutto esaurito a posteriori più che giustificato accoglie Valerio Mastandrea che si presenta sul palco del Franco Parenti di Milano solo a interpretare un monologo scritto e diretto da Mattia Torre, Migliore, in scena dal 24 al 29 gennaio.
La vicenda che emerge dall’intreccio dalle voci è quella di un uomo come tanti, Alfredo Beaumont, che si trova in un periodo molto delicato della sua vita. Si sente fragile e a barcollare insieme a lui è il posto che occupa nella società: lavora in un’azienda di lusso che offre ai suoi clienti ogni tipo di servizio tramite una semplice chiamata telefonica; un’azienda totalizzante, di quelle «che vogliono che il dipendente sia anche un cittadino buono e generoso», che però sta riducendo i posti di lavoro e l’informatizzazione, si sa, colpisce per primi i dipendenti che, come Alfredo, stanno al “primo piano”.

Proprio in una posizione di primo piano è il ruolo che gli è affidato nell’azienda, ma non nel senso di un ruolo di spicco, bensì in quello più concreto di piano basso: quelli che come Alfredo stanno ai livelli inferiori della gerarchia vedono costantemente riflesso nella struttura fisica dell’edificio il loro posto marginale e sempre più precario, insieme alla loro impotenza di fronte ai capricci della manager, Sofia, la terribile e bellissima figlia del capo che fa la spola tra il quarto piano e i piani bassi, pretendendo favori di ogni tipo che i dipendenti non esitano a offrirle ossequiosamente.

Migliore

Ma le preoccupazioni e il senso di inadeguatezza di Alfredo non si esauriscono nell’ambiente di lavoro: uno come lui che difetta nel fare il tiramisù (che è esso stesso vita), ha per forza paura della vita, se il sillogismo funziona; «ma chi ha paura della vita ha senz’altro paura della morte». E dopotutto anche in famiglia Alfredo non si sente a suo agio su questo tema: sin da piccolo, i suoi gli hanno insegnato a guardarsi sempre e comunque dalla morte, che è dappertutto e si cela da ogni parte, tanto che restare vivi diventa quasi un fortunato accidente per cui stupirsi. E a dimostrare che dalla morte non si scappa mai c’è anche la cura delle malattie che lo affliggono, che dovrebbe essere finalizzata a continuare a vivere ma che sottrae invece ore preziose e irrecuperabili alla vita stessa.

Quasi ironico è il fatto che proprio Alfredo, un uomo così appartato, silenzioso, persino buono in un mondo che non guarda in faccia nessuno, che esige velocità e efficienza ma in cui comunque non ci si mette mai meno di un’ora a trovare parcheggio, si trova imprevedibilmente e irrimediabilmente coinvolto nella morte della signora Silvia, la vicina di casa in carrozzina, che si era offerto con un gesto di cortesia non richiesto e persino forzato di portare lui stesso fino al secondo piano ma che a seguito di uno scivolone sulle scale bagnate (tutta colpa di un paio di Clarks) picchia la testa a terra e muore.

Al vuoto generato dal senso di colpa, che sempre più divorante scava nel suo petto a seguito di questa vicenda, in cui Alfredo vive per la prima volta un triste protagonismo, si aggiungono le domande che scaturiscono dall’inspiegabilità e dall’insensatezza degli eventi: «Perché proprio a me?», è l’interrogativo più immediato e a cui nessuno può dare una risposta adeguata.
Poco conta se la giustizia lo assolve, Alfredo continua a sentirsi colpevole, almeno finché la figlia della signora Silvia non lo avvicina e gli dice che le dispiace per quello che ha dovuto passare, e che si è trattato senz’altro di un incidente.

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Da quel momento tutto cambia, come se, interiorizzato il fatto, Alfredo avesse finalmente imparato a stare al mondo e avesse sviluppato gli artigli per difendersi. Diventa un uomo migliore, quel migliore in cui la sua azienda auspicava di trasformarlo e che lo premia con una promozione professionale.

Parallelamente a ciò, Alfredo riesce a imporsi per la prima volta su coloro che lo infastidiscono, dal vicino di tavolo al ristorante a quelli della nettezza urbana che da dieci anni tutte le mattine alle 7.30 suonavano sempre il suo campanello e inizia a collezionare una serie di successi e di vittorie (dal trovare parcheggio in soli tre minuti ad arrivare quasi a scopare con l’attraente figlia del capo).

Se inizialmente questi momenti di riscatto potrebbero persino essere accolti entusiasticamente dal pubblico, che sarebbe quasi portato a fare il tifo per questo nuovo Alfredo, presto mettono a nudo un uomo che si è inserito nella società creandosi il suo spazio a costo però di diventare irrimediabilmente cattivo e cinico, camaleonticamente integrato nell’indifferenziazione del contesto in cui fino a poco prima aveva sofferto per il suo essere diverso scomodo e frustrante.

Eccellente Mastandrea nella resa di un testo comico nella forma (frequenti sono le battute e altrettanto le risate dal pubblico), nelle situazioni e nei dialoghi quanto tragico nelle constatazioni di fondo che ne emergono, forse anche grazie alla sua capacità di modulare la voce in modo da alternare, a volte anche con ritmo incalzante, posizioni, toni e visioni diverse che concorrono a delineare la nostra società in cui il pubblico si identifica immediatamente e di cui nello stesso tempo ne coglie i difetti più esecrabili.

Efficace anche la scelta della regia di optare per una scenografia asciutta, minimale, a cui danno colore e forma solo alcune luci dall’alto e gli spostamenti dell’attore, che non distrae lo spettatore e che suggerisce come il personaggio abiti uno spazio di per sé scarno, vuoto, un po’ come quello che gli si crea nello stomaco, su cui lui stesso deve imporre la sua presenza, in modo brutale, quasi come dovesse segnare il territorio per sopravvivere.

Emblematico del cambiamento del personaggio e evidenziato per contrasto con l’allestimento della scena precedente è la discesa dall’alto, nella scena finale, di un tavolo e di una valigetta da cui l’attore attinge l’occorrente per farsi un uovo. Alfredo, che oltre a non riuscire a cogliere l’arte sottesa dietro alla preparazione di un buon tiramisù, «non era buono nemmeno a rompere le uova» ha avuto la sua rivincita.

Se sia davvero diventato migliore, è quantomeno dubbio. Forse, in fin dei conti, è la parola migliore in sé a suggerire che certe ambiguità non si risolvono mai con una risposta categorica.

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Martina Corti

Ho ventuno anni, studio filosofia all'Università degli studi di Milano, mi piace scrivere e sono appassionata di musica e di teatro.

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