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Amore e altri (possibili) rimedi al dominio maschile

7 minuti di lettura

Maschio e femmina, prima di tutto

Nel suo testo, Il dominio maschile, Pierre Bourdieu descrive l’universo-mondo come retto su una inconfutabile dicotomia fondativa. Destra/sinistra, alto/basso, secco/umido, attivo/passivo, fuori/dentro, pubblico/privato… Ogni singolo aspetto della vita, materiale e immateriale, e delle sue rappresentazioni, può essere inscritto all’interno di una bipartizione, i cui poli costitutivi appaiono moralmente connotati e gerarchicamente organizzati. Ma la divisione essenziale, a partire dalla quale emana ogni altra, è ravvisabile nel corpo sessuato: la coppia maschio/femmina. Il maschile è il polo positivo per eccellenza, al punto da essere insignito del potere di connotare positivamente ogni altro elemento che gli possa essere associato per analogia. Ed è doppiamente positivo, nella misura in cui costituisce l’azione positiva, l’elemento attivo che produce, preda, riempie, domina, colonizza. Il femminile, al contrario, è negativo non solo in quanto negativamente connotato, ma soprattutto in quanto sempre costruito non come per-sé, ma come negazione del maschile. Persino la vulva non è dotata di un’ontologia propria, non possiede di per sé lo statuto e la legittimità di organo autonomo: è solo un pene rovesciato, nell’aspetto e nelle funzioni.

Socializzazione del biologico e biologizzazione del sociale

Attraverso un processo che Pierre Bourdieu definisce «socializzazione del biologico e biologizzazione del sociale», un dato eminentemente biologico, come la differenza anatomica trai sessi, e in particolare gli organi sessuali, funziona come giustificazione naturale (e naturalizzante) della differenza socialmente costruita trai generi. In altre parole, le differenze visibili trai corpi maschili e femminili e i loro usi e funzioni possono «offrire un fondamento in apparenza naturale alla visione androcentrica della divisione del lavoro sessuale e della divisione sessuale del lavoro» (Bourdieu 1998, p. 32). 

A partire da una vera e propria inversione dei rapporti di causalità, il fallo viene quindi proposto come fondamento naturale della visione androcentrica del mondo, quando è in realtà quest’ultima a costruirlo socialmente come simbolo di virilità positiva e caricarlo di senso. Tuttavia, per quanto si tratti di una costruzione simbolica, non si deve pensare che la sua operatività sia limitata alle rappresentazioni. Il dominio maschile come impalcatura concettuale, infatti, è dotato di un potere, non solo descrittivo, bensì attivo e trasformativo, nella misura in cui organizza la realtà entro i margini di una vera e propria tassonomia, che si auto-legittima. 

Profezie di genere

Come una profezia che si auto-avvera, il dominio trasforma i corpi, instradandoli verso un destino a carattere deterministico, composto dalle pratiche, i rituali, i discorsi, le attività e i simboli che la natura (in realtà socialmente costruita) ha stabilito essere appropriati rispettivamente per gli uomini e le donne. In questo senso, dunque, uomo maschile e donna femminile sono il risultato di un processo di «costruzione diacritica» (Bourdieu 1998,p. 33). L’appartenenza al genere è sancita relazionalmente attraverso l’esclusione dal pensabile di tutte quelle pratiche che segnerebbero l’appartenenza all’altro genere. In questo modo, il dominio maschile si assicura che i ranghi restino serrati, nella misura in cui uomini e donne possono ritenersi tali solo adempiendo correttamente alle profezie che indicano cosa siano in grado di fare. 

Il dominio maschile coordina dunque subdolamente le modalità in cui abitiamo spazi fisici e relazionali, attraverso un lavorìo costante di educazione alle corrette performance di genere (Butler 1999), radicato all’interno di uno specifico edificio ontologico. Ad oggi, grazie alle conquiste del movimento transfemminista, possiamo ritenerci generalmente più capaci di riconoscere e mettere in discussione la natura socioculturalmente determinata delle prescrizioni più iperboliche e stereotipiche associate ai rapporti di genere (ad esempio la convinzione che le donne siano naturalmente più interessate alla cura estetica). Tuttavia, le gerarchie di genere continuano a operare attraverso modalità più sottili e pervasive, che connotano intimamente le relazioni, in particolare quelle eterosessuali.

Il pensiero straight

A proposito dell’esperienza del genere nelle relazioni, Monique Wittig, teorica femminista autodefinitasi lesbica radicale, intende la dominazione delle donne come categoria ri-prodotta discorsivamente attraverso i segni trasmessi dalle immagini e dalle rappresentazioni che permeano la quotidianità, in particolare i film, le riviste, i manifesti pubblicitari e la pornografia. Monique Wittig in questo senso intende l’eterosessualità come regime politico imposto, funzionale alla ri-produzione della società. Scrive a questo proposito la filosofa francese: «L’eterosessualità è una costruzione culturale che giustifica tutto il sistema di dominazione sociale fondato sulla funzione della riproduzione obbligatoria per le donne e sull’appropriazione di questa riproduzione da parte degli uomini» (Wittig 1992, p. 47). 

Quello che Monique Wittig definisce «pensiero straight», non solo attivamente relega le donne a una posizione di sottomissione agli uomini, ma agisce negando la stessa dignità ontologico-epistemologica di tutto quello che è altro da sé. Coerentemente con le tesi proposte dal femminismo della differenza, il maschile (bianco, borghese, eterosessuale, cisgender, abile) è l’universale, il femminile è il particolare, una variante dalla norma che non può assumere alcuna significazione se non in seno a quest’ultima. Il pensiero straight come regime politico si impone quindi come destino necessitato, come unica categoria costitutiva del reale e dunque, di conseguenza, come precondizione tale affinché qualunque sua espressione deviante possa esistere. 

Essere complici

«La verità è che gli uomini trovano nella loro compagna più complicità di quanta non ne trovi normalmente l’oppressore nell’oppresso.» Sono vaticini dolorosi, certi passi di Simone De Beauvoir. Ancor più se si considera il fattore di permanenza del dominio che Pierre Bourdieu ha affermato con maggiore cautela: il contributo inconscio che chi subisce il potere fornisce alla sua perpetuazione, in ragione della profondità con cui esso è radicato nei corpi e dunque naturalizzato. Se con complicità, dunque, non intendiamo solo un’inconsapevole connivenza, ma anche la volontà di costruire un’intima connessione, un desiderio di essere complici, è possibile pensare l’eterosessualità oltre la condanna all’eterna riproduzione del dominio? Com’è possibile amare gli uomini e desiderare di essere soggetti autonomi, reali, senza trascinarsi dietro la zavorra dell’ontologia androcentrica?

Di fronte a questo impasse, il femminismo della differenza sembrerebbe apparentemente aver assunto le posizioni più risolute. La filosofa statunitense Adrienne Rich propone l’esistenza lesbica come scelta ragionata di posizionamento politico, pratica resistenziale di identificazione con le donne e atto ultimo di liberazione dall’oppressione fallocentrica. In Italia, Carla Lonzi descrive la penetrazione come l’atto supremo di colonizzazione del corpo femminile da parte del maschio e invoca la potenza sovversiva dell’orgasmo clitorideo. In risposta all’indicibilità del femminile lungo tutta la storia del pensiero occidentale, fa del perentorio «comunichiamo solo con donne» il fondamento del suo manifesto programmatico. 

Eppure, in maniera solo apparentemente incompatibile con la sua militanza, Carla Lonzi ha condiviso dieci anni della sua vita con lo scultore Pietro Consagra. La fine della loro relazione è poi confluita nel testo Vai pure (1980), che Carla Lonzi, che certamente non soffriva di afasia per quanto riguarda la propria vita privata, ha scelto di pubblicare, come parte integrante del suo corpus di scritti, tutti indissolubilmente legati al pensiero femminista. Con quali lenti leggere tutto questo?

Amore e altri rimedi

Prima di avviarsi alla conclusione, Pierre Bourdieu sceglie di inserire ne Il dominio maschile un interessante poscritto. Scrive d’amore. Scrive, Pierre Bourdieu, riconoscendo la natura necessariamente ambigua, infida, del rapporto tra amore e dominio. Può essere amor fati, assunzione incorporata di un destino di sottomissione. Così l’amore può farsi vettore della violenza simbolica nella sua forma suprema, «perché la più sottile, più invisibile» (Bourdieu 1998, p. 126). 

Allo stesso tempo, l’amore può anche farsi «tregua miracolosa in cui il dominio sembra dominato […] e la violenza virile pacificata». Donarsi all’altro totalmente, costruire un rapporto di piena reciprocità costantemente negoziato, sostiene convintamente Pierre Bourdieu, può infine sovvertire il rapporto di dominio. All’interno di uno scambio dialettico che sia realmente orizzontale e paritetico, le donne che amano gli uomini possono sottrarsi al determinismo del destino di essere oggetti di scambio all’interno di un’economia di beni simbolici e diventare soggetti, nella propria specificità. Il battesimo tra amanti descritto da Pierre Bourdieu è l’atto di nomina supremo attraverso cui due soggetti si riconoscono mutuamente come tali nominandosi in un modo esclusivo, intimo, proprio. Possono in questo senso fare dono di sé in maniera assoluta e disinteressata, trascendendo qualunque gerarchia di genere. 

Suona certamente bellissimo, eppure poco convincente. Il rimedio vero non può solo essere la cieca fiducia in questo sacro e speciale momento di riconoscimento dell’altro come soggetto. Non se la famiglia nucleare eterosessuale e monogama, ricettacolo del vincolo sacro d’amore, si configura ancora statisticamente come il luogo di maggiore perpetrazione della violenza domestica. 

Un lavoro educativo all’affettività, al genere, alla sessualità, al consenso, è invece fondamentale e necessario e deve poter essere agito sistematicamente in senso multiscalare, a tutti i livelli della società, orizzontalmente e verticalmente. Affinché sia possibile riconoscere il femminicidio come atto estremo di affermazione del dominio maschile, come disposizione ultima di vita e morte su un corpo femminile irrequieto e ribelle che ha osato esercitare la sua agentività e sottrarsi alla volontà dell’autorità maschile.

L’amore, ha scritto eloquentemente bell hooks, non è un sentimento che si esperisce. Amare è un verbo del fare, è un atto di volontà, una scelta attiva e ragionata. Amare è una pratica costante di rielaborazione, è continuamente fare e disfare. Anche all’interno dei nostri microuniversi quotidiani, nella coppia, treppia, polecola o qualunque assetto relazionale si scelga, è sempre necessario un lavoro costante, esplicito, mutuo e riflessivamente negoziato e negoziabile di costruzione.  Per poter edificare uno spazio relazionale che, anche se forse ancora non può e forse non potrà mai trascendere la fondamentale disparità di capitale simbolico che vige tra uomini e donne (almeno fin quando il patriarcato esisterà), magari potrà essere quantomeno uno spazio piacevole da abitare insieme. Anche se ogni tanto ha bisogno di manutenzione.


Illustrazione di Camilla Volpe

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Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

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