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Antonio Delfini: attraverso la fine del mondo

10 minuti di lettura

C’è un poeta che l’Italia ha dimenticato: la sua esistenza, fra l’altro di breve durata dato che si concluse prematuramente a 57 anni, è stata come rimossa dalla coscienza collettiva. Il nostro Paese, al momento, non è pronto per ricordarsi delle sue voci minori, di coloro che lo hanno cantato e anche, soprattutto, gliele hanno cantate. Ed è complicato stabilire se ad Antonio Delfini tutto questo oblio avrebbe fatto piacere. Se infatti, da un lato, il modenese tendeva inquietamente ad un annichilimento personale, dall’altro egli si fece profeta di una prossima (e tragicamente prolungata) fine del mondo, che avrebbe travolto l’intero genere umano partendo da ministri, avvocati, maneggioni e così via.

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La disgrazia distruttiva doveva calare innanzitutto sugli strati sociali più elevati che, fra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60, si cullavano beceramente in una venefica Dolce Vita. Antonio Delfini colse non solo l’avvento ma anche la necessità di un’oblio collettivo, senza redenzione né punizione, dunque inutile, ma di valenza liberatoria. Una nemesi scagliata su «l’epica falsità e la tregenda mossa» di una corrotta società italiana sulla via dell’inconsapevole rovina.

Poesie della fine del mondo è l’unica raccolta pubblicata vivente l’autore (più che per le poesie Antonio Delfini è conosciuto per i racconti, tra i quali l’ormai introvabile Ricordo della Basca, ove figura una Modena surreale e labirintica) e contiene i versi composti dal novembre del 1958 all’ottobre del 1960: Irene Babboni ha recentemente curato una nuova, preziosissima edizione dell’opera per Einaudi, contenente anche le poesie giovanili, e dunque precedenti la “fine del mondo”, e quelle successive composte nel ’61. L’iniziativa è importantissima poiché permette di riscoprire Delfini evidenziando interamente il suo particolarissimo percorso poetico.

Il Delfini dei primi anni ’30, poco più che ventenne (era nato nel 1907), è costantemente teso fra due ossessioni complementari, la solitudine e l’anelito alla fuga: dalla fusione di queste due scaturisce una poesia non ancora di invettiva, come sarà la produzione seguente, ma nella quale però si respira già un’aria viziata da un certo livore. Delfini si osserva sfilare per strada, sconvolto dalla propria stessa esistenza, come uno Sbarbaro, si odia:

Potessi un giorno
camminare da solo
ma solo solo
non come vado adesso
solo
ma solo solo
senza me stesso.

Le poesie “prima della fine del mondo” testimoniano un male di vivere sopportato a fatica, subìto con una malinconia quasi crepuscolare, seppure il messaggio avanguardistico è stato pienamente recepito e sviluppato. A questo riguardo è interessante notare le cosiddette “poesie di mezzo”, ricavate incollando ritagli di giornale alla maniera di Eluard (ma non solo: il layout futurista non può che far pensare ai titoli dei quotidiani): in esse vi è una forte anticipazione di quella che io chiamerò “decomposizione della lingua”. In questo stadio ancora embrionale, la poesia esprime esclusivamente sé stessa, è un racconto muto e senza senso del mondo, racconto già insito nelle parole degli altri: «Anche le ballerine/sono/strade infuocate/per/la realtà».

antonio delfini

A partire dagli anni ’40 lo scrittore modenese inizia a fare uso di una metrica ritmicamente scanditissima, evidenziata da rime baciate e da versi quasi filastroccheschi. Assistiamo, ancora di più, ad una decomposizione del classicismo, nel cui finto ordine si cela un caos di marionette inquietanti, un mondo che sembra giocattolo ma è trappola: «Il sole schizza fuori un topo/La paura manda il silenzio dopo//E nell’aria unita come crema all’alba/Sentirai Tumfrinàuti che ti parla». L’esito ultimo di questo smarrimento non può che portare alla fondazione di un universo immaginario, popolato da figure prese dalla vita reale e trasformate in orrendi mostri umani, archetipi di peccato e sregolatezza. Non è dunque sbagliato dire che per Delfini la fine del mondo coincida con la piena maturazione del suo mondo parallelo, che è al contempo denuncia e stravolgimento della verità.

Il processo di decomposizione della lingua cui avevo già accennato è portato, nella raccolta Poesie della fine del mondo, alle sue estreme conseguenze: il turpiloquio, anche eccessivo, debordante, invade il linguaggio in un apocalittico horror vacui, le parole sono storpiate, si invertono le lettere. Il verso delfiniano si scioglie qui in un acido corrosivo, procede spesso per meccanismi metrici a orologeria che lo rendono simile a una bomba rotta, costantemente sul punto di esplodere ma che, di fatto, resta inesplosa. L’autore emiliano si immola quindi sull’altare dell’angoscia esistenziale per offrire una poesia paradigma dell’incompiutezza, dell’inadeguatezza, estremamente novecentesca. Una poesia sempre ad un passo dall’essere capolavoro ma sprofondante in un’imprecisione, un’imperfezione in assoluto disperata. Tutto è percorso da difettose, erratiche, malate convulsioni tragiche, le invettive contro «Mercanti, banchieri, avvocati, ingegneri, cocchieri» e chi più ne ha più ne metta toccano apici di violenza inaudita nella letteratura italiana.

Traspare, da questa raccolta, un’insofferenza non da misantropo ma da disilluso, l’insofferenza di un intellettuale anticonformista e impulsivo, nemico della politica, per cui Democrazia Cristiana e Partito Comunista sono due facce della medesima, orribile medaglia. Delfini è un poeta nauseato dalla società contemporanea, se ne sente estraneo ed estraniato, il suo canto è soffocato da un odio sanguinoso ma non colpevole, o almeno non più colpevole di quanto lo siano i suo bersagli («Per l’armonia della vostra figura/Italia, mia patria assassinata,/sgozzerò tutte le donne del mondo/in un grande campo di grano»), e giunge a minacciare una “guerra”. Ecco dunque che la poesia Minacciamo di far guerra fornisce la chiave di lettura per l’intera raccolta: il conflitto profetizzato e auspicato, che metterà fine alla Storia, sarà guidato da una «Bambina», la «figlia di Guido Cavalcanti», «senza croce» ma recante «in mano/una rosa infiammata di odio e di amore». Non mi è difficile rintracciare, in questa figura così affascinante e originale, l’allegoria della Poesia: ad essa è assegnato il compito privilegiato di accompagnare l’umanità verso la propria autodistruzione, per poi tentare di ricostruirla, essa con le sue rime aguzze, con le sue carneficine ideali, ripulirà la Terra dalla «Merda» e dal «Nulla» (con le maiuscole, come fossero entità malefiche autonome), a costo di operare con brutalità e ferocia. Ma avvenuta, dopo maledizioni , aborti e sodomie varie, la fine del mondo, poco pare essere cambiato: forse l’apocalisse deve ancora verificarsi, e allora lo scrittore si divincola smarrito,  la crudezza dei versi torna ad un classicismo frammentario, come in un estremo tentativo di riconciliarsi col proprio mestiere e con la propria esistenza.

Si ritorna a parlare d’amore, ma come al solito Antonio Delfini fa l’Antonio Delfini, e riemerge dal proprio porto sepolto con manciate di sessualità mortifera e depressa («Avrai le gambette strette con le calzette./Non sperare!/Ti guarderò senza farmi le pugnette»). Così al poeta, avvertita l’umanità riguardo alla dissoluzione cui sta andando incontro, non rimane che morire, («Venite a prendermi di corsa/perché sto per morire») congedandosi dalla vita che lo aveva terrorizzato, prosciugato, infine ucciso:

Noi viviamo
di una paura
totale
assoluta
invereconda
senza remissione.

Michele Donati

Immagine di copertina: internopoesia.com

 


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