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La bella estate

La bellezza della disillusione: «La bella estate» di Cesare Pavese

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11 minuti di lettura

La bella estate, pubblicata da Cesare Pavese nel 1949, un anno prima del suo suicido, fu l’opera che valse allo scrittore torinese la vittoria del Premio Strega nel 1950. Nonostante questo, il libro risulta essere uno tra i meno conosciuti e letti tra quelli di Pavese e per di più andò soggetto a critiche e stroncature da parte di critici e amici illustri, tra cui Italo Calvino e Augusto Monti.

Certo, La bella estate non è un romanzo di immediata comprensione, o meglio – non lo è se si cerca nella lettura uno svago fugace e leggero, una leggerezza che sia distrazione rispetto alla nevrotica routine. Ma in questo è perfettamente un romanzo di Cesare Pavese, anzi si potrebbe dire che tra le varie opere essa sia una delle più rappresentative non tanto del suo stile e della sua poetica (per questo ci sono certo gli scritti più celebri – La luna e i falò, La casa in collina, I dialoghi con Leucò), quanto dell’uomo che fu Pavese, delle sue illusioni e disillusioni, che egli trasferisce simbioticamente nei protagonisti dei tre racconti che vanno a costituire il libro.

Cesare Pavese. Fonte: Wikipedia

Che cos’è «La bella estate»?

Questa è la prima domanda che sorge spontanea nel momento in cui si appresta ad affrontare l’opera. Non è semplice definirne il genere: romanzo o raccolta di racconti? Nella presentazione del libro Pavese stesso afferma:

Un volume, tre romanzi. Ciascuno di essi potrebbe da solo far libro. Perché La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole escono insieme? Non è quel che si chiama trilogia. […]

Si tratta di un clima morale, un incontro di temi, una temperie ricorrente in un libero gioco di fantasia.

In effetti leggendo i tre racconti essi sembrano naturalmente sfociare l’uno nell’altro, senza una vera e propria soluzione di continuità, eccetto il cambio dei nomi dei protagonisti: una sorta di ovidiana metamorfosi. Pur nella loro singolare completezza, i tre racconti rifulgono della luce dell’insieme e l’opera non potrebbe risultare completa se non nel loro accostamento.

«La bella estate»

Parlando brevemente del contenuto, La bella estate è il racconto in prima persona dell’estate di Ginia, una sedicenne torinese che lavora come sarta; il lettore si troverà catapultato nell’universo emotivo di un’adolescente ancora infantile, piena di aspettative ed illusioni, frizzante di vita e speranza, che tramite l’amicizia con una ragazza più grande e disinvolta, Amelia, entra per la prima volta in contatto con un mondo nuovo, fatto di arte e vita bohémien, vizi e carnalità, istanti fugaci e spesso superficiali.

La bella estate

«Il diavolo sulle colline»

Il diavolo sulle colline è invece la storia di tre amici studenti universitari (sempre narrato in prima persona da uno dei tre – senza nome) che, giunta l’estate, fuggono la noia estiva rifugiandosi in collina. Qui incontrano un ragazzo dell’alta borghesia torinese che vive una convalescenza in villeggiatura sulla collina del Greppo, nella quale vengono invitati a sostare per un periodo: qui entreranno in una sorta di dimensione a-temporale, quasi onirica, in cui la purezza della natura e il vizio cittadino si uniscono in connubio.

La bella estate

«Tra donne sole»

Tra donne sole, infine, è l’unico racconto in cui l’estate rimane solo come stagione interiore e non oggettivo momento di svolgimento della storia. La protagonista è Clelia (di nuovo io-narrante), una giovane donna che, da umili origini, si è fatta imprenditrice e torna a Torino, luogo della sua infanzia, per aprire un proprio atelier. Qui, ricalcando le orme del suo passato, è ormai inserita in quel gruppo sociale alto-borghese che da ragazzina guardava con ammirazione ed invidia. Ora che ne fa parte e ne conosce persone e abitudini si rende conto in realtà dell’inconsistenza di tutto quel benessere: l’unica libertà rimasta è la scelta della solitudine, l’unico modo per rimanere se stessi e sinceri.

La bella estate

«La bella estate» come momento della vita

Il fil rouge che attraversa tutti e tre i racconti rendendoli coerentemente un unicum è proprio La bella estate, vista come momento della vita. L’estate è la stagione della giovinezza, il momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta: è bella nell’ottica di chi si appresta a viverla, carico di aspettative e sogni da un lato infantili, dall’altro idillici, proiettati in un universo pieno di innocenza e favoleggiamento tipico di chi non è ancora sceso a patti con il reale.

Leggi anche:
Il fascino dell’estate – i nostri consigli: “La luna e i falò” di Cesare Pavese

È così che chi legge entra nella storia, attraverso l’occhio incantato di Ginia, che vede ancora ogni cosa come un sospiro di meraviglia. Ma non esiste, o meglio non esiste in questo mondo (forse esisteva nell’età del mito – come ci dice nei Dialoghi con Leucò) una bellezza pura, che non chieda di pagare lo scotto: assaporare l’entusiasmo dell’essere vivi scaturisce tragiche conseguenze e diventare giovani adulti altro non è che un traumatico disilludersi. E così Ginia, che vuole amare, conosce cosa significa avere un corpo: non esiste una verginità perenne, né il lieto fine da favola casta.

I rapporti umani sono messi a nudo da Cesare Pavese in tutta la loro contraddittorietà: l’amicizia appare costantemente minacciata dall’interesse e dalla frivolezza, il sentimento d’amore altro non è che tentazione, o tuttalpiù l’avventura di una notte. Non c’è spazio per il romanticismo: l’unico modo rimasto per sentire, l’unica profondità concessa è nella solitudine. è questa la consapevolezza del doppio di Ginia, ovvero la Clelia dell’epilogo: già adulta, quindi già disillusa, diviene consapevole della vacuità del mondo di cui ha sempre desiderato di far parte: per salvaguardare se stessa e la sua libertà l’unica strada rimasta le appare quella di non condividersi, per non lasciarsi corrompere.

Mondo urbano e mondo agricolo

A fare da trait d’union tra le due donne ecco un racconto al maschile, in cui tutti i contrasti umani e sociali si esplicitano nel conflitto pavesiano per eccellenza: il mondo urbano ed il mondo agricolo. Nel secondo racconto il rito di passaggio si fa palese: è l’inselvatichimento del giovane di città tramite il rituale del bagno nel pantano. I ragazzi cercano di ricongiungersi con la dimensione naturale attraverso la nudità e il contatto (letterale) con la terra, in una ricerca di se stessi che è ricerca delle origini stesse dell’essere umano. Il mondo contadino viene visto con gli occhi della favola bucolica, ma ancora una volta il raggiungimento della consapevolezza adulta si risolve in una disillusione: non esiste l’età dell’oro nei campi, perché le colline, i vigneti, la terra sono fatica e sudore, oppure nient’altro che sfondo vizioso ai capricci di giovani possidenti che ne fanno villeggiatura. Anche la natura viene corrotta dalla città.

Una dolce visione disincantata del mondo

Cesare Pavese, con la sua scrittura lirica e allusiva, altro non è che il prisma da cui derivano tutte queste immagini. La sua visione del mondo disincantata qui meglio di altrove riesce ad emergere con dolcezza, una dolcezza disarmante, data la tragicità dell’assunto finale. Si dice talvolta che Pavese sia uno scrittore estetizzante, disinteressato alla letteratura sociale. Ma siamo sicuri che sia così facile il giudizio?

Cesare Pavese è in grado, ad uno sguardo sensibile ed attento, di tratteggiare il ritratto dell’essere umano svelandone i tormenti esistenziali causati da un’epoca di decadenza, senza abbellimenti, se non quelli di una natura lontana e sfumata, che però quando viene raggiunta e conquistata si rivela tanto secca ed arida quanto la nevrotica urbanità da cui i suoi personaggi sempre desiderano fuggire (se non sono ancora ragazzini ingenui). Cosa rimane alla fine?

Lo dice una delle frasi che racchiude il senso dell’intero volume:

È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire.

 


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Costanza Motta

Laureata triennale in Lettere (classiche), ora frequento un corso di laurea magistrale dal nome lungo e pretenzioso, riassumibile nel vecchio (e molto più fascinoso) "Lettere antiche".
Amo profondamente i libri, le storie, le favole e i miti. La mia più grande passione è il teatro ed infatti nella mia prossima vita sono sicura che mi dedicherò alla carriera da attrice. Per ora mi accontento di scrivere e comunicare in questo modo il mio desiderio di fare della fantasia e della bellezza da un lato, della cultura e della critica dall'altro, gli strumenti per cercare di costruire un'idea di mondo sempre migliore.

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