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Bookcity 2019. Fra Africa, solitudine e immigrazione

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34 minuti di lettura

Dal 13 al 17 novembre 2019 ha avuto luogo a Milano la kermesse letteraria di Bookcity, giunta alla sua ottava edizione, che come ogni anno non solo coinvolge il Castello Sforzesco come centro della manifestazione, ma anche tante altre realtà della città di Milano, come le università, le biblioteche, le librerie e le periferie. Grandi temi di quest’anno sono stati il focus sulle Afriche e il gemellaggio tra Milano e Barcellona per il progetto UNESCO Creative Cities, dopo che l’anno scorso la manifestazione si è concentrata sull’Irlanda.

La serata di apertura ha avuto luogo al Teatro Dal Verme di Milano e ha avuto come protagonista lo scrittore basco, vincitore del Premio Strega Europeo 2018, Fernando Aramburu, a cui è stato consegnato il Sigillo della Città e che ha dialogato con lo scrittore Paolo Giordano sul tema delle convivenze, con un intervento della narratrice e saggista Michela Marzano, dello slam poet Simone Savogin e la conduzione da parte del conduttore radiofonico, critico letterario e giornalista Marino Sinibaldi.

In questo articolo si parlerà di alcuni eventi e si spiegherà di cosa si è trattato.

Testimoniare una doppia diversità: incontro con lo scrittore africano Max Lobe

Il seguente evento ha avuto luogo venerdì 15 novembre alle 14:30 presso l’aula 113 della sede di via Festa del Perdono dell’Università degli Studi di Milano e ha avuto come protagonista lo scrittore svizzero-camerunense Max Lobe. A moderare l’evento la Prof.ssa Silvia Riva e Isabella Ferretti di 66thand2nd.

Max Lobe assieme alla Prof.ssa Silvia Riva e a Isabella Ferretti di 66thand2nd
© Alberto Paolo Palumbo. Tutti i diritti riservati

Dopo una breve presentazione della casa editrice 66thand2nd da parte di Isabella Ferretti e una breve introduzione sull’autore da parte della Prof.ssa Silvia RivaMax Lobe ha presentato a un pubblico di giovani studenti e no il suo romanzo del 2013, pubblicato da poco qui in Italia, Rue de Berne, numero 39 (acquista), con protagonista il giovane Dipita. Con molta ironia e intelligenza, e coinvolgendo direttamente gli studenti, lo scrittore svizzero-camerunense originario di Douala, nel Camerun sudoccidentale, classe 1986, ha affrontato vari argomenti, oltre a parlare di come si è avvicinato alla scrittura. Per prima cosa, ha detto di non amare molto la dicitura “letteratura africana”, poiché le vicende che narra possono accadere ovunque e a chiunque, essendo storie umane con protagonisti esseri umani che colpiscono tutti. Inoltre, ha menzionato il fatto di non essere compreso, nonostante nei suoi romanzi dissemini chiavi di lettura, poiché tutti vogliono che lui parli nello stesso modo in cui parlano gli altri, quando in realtà vuole riconoscere che siamo diversi per dare più vita a ciò che ci circonda. Si rende conto che, nella sua esperienza in Svizzera, persone come lui devono lavorare duramente, ma bisogna comunque andare avanti.

Parlando del suo modo di scrivere, Max Lobe sostiene che il romanzo deve lavorare con l’empatia, mentre Isabella Ferretti è intervenuta dicendo che la letteratura deve allargare gli orizzonti facendoci vedere dentro e fuori di noi, ribadendo il concetto di letteratura melting-potMax Lobe ha proseguito parlando dell’intento della scrittura di creare ponti per portarci in un altro mondo, un mondo che comunque ha dei punti in contatto con il nostro, come la voglia di conservare le proprie tradizioni da parte di Camerun e Svizzera, patrimonio che ci rende unici nella nostra diversità.

Dopo aver approfondito il tema della prostituzione, presente in Rue de Berne, numero 39, ribadendo la libertà di scelta degli individui e l’assunzione della responsabilità per le proprie azioni, Max Lobe affronta un tema molto presente nel romanzo: l’omosessualitàMax Lobe ha ribadito di non voler scrivere un libro con una storia gay, poiché non è un attivista, e quello che scrive è una storia d’amore, e l’autore invita a rispettare le persone e a capirle, anche se si rende conto che ciò richiede tempo. È voluta, infatti, la scelta di non trattare razzismo né omofobia, poiché non vuole fare propaganda, ma raccontare storie che portano in un’altra dimensione, dove ognuno è libero di esprimere se stesso e fare ciò che vuoleMax Lobe lavora per arrivare alla gente, e per farlo non ha bisogno di un nemico, ma solo di raccontare con lucidità le sue storie, senza avere paura di essere se stesso.

L’inizio della fine. Il romanzo della schiavitù dal punto di vista dell’Africa

Questo evento, che ha avuto luogo sempre il 15 novembre, ma alle 18:30 e presso il Cafè Rouge del Teatro Franco Parenti di Milano, ha avuto come protagonista Leonora Miano, scrittrice franco-camerunense che pubblica con Feltrinelli La stagione dell’ombra (acquista), presentato assieme alla giornalista Lara Ricci de Il Sole 24 Ore. Nata a Douala nel 1973, arriva in Francia nel 1991, dove studia letteratura angloamericana. Con i suoi romanzi si aggiudica il Grinzane Cavour giovani, il Prix Femina e il Grand prix du roman métis. Il romanzo trattato affronta la tratta atlantica degli schiavi, che coinvolge la popolazione dei Mulongo, popolazione immaginaria dell’Africa subsahariana, in un immaginario villaggio isolato dal resto del mondo, ma che vive in pace con la natura e con i popoli vicini, i cui equilibri vengono sconvolti dall’arrivo degli Europei e da un incendio a seguito del quale spariscono 11 persone, tra cui 9 giovani e 2 anziani. Il motivo che spinge la scrittrice a trattare questo è tema è quello di portare su carta esperienze specifiche che nessuno può narrare e che appaiono poco nella letteratura subsahariana, nonostante quello della tratta atlantica, avuto luogo nel XVII secolo, sia stato un evento che ha riconfigurato gran parte delle regioni africane. Questo romanzo è frutto di un lavoro di ricerca di circa quarant’anni, in cui l’autrice ha letto molto su questo tema. Tutte le sue letture sono confluite in modo naturale nella sua scrittura. La sua passione, afferma Leonora Miano, è quella di ricostruire una sorta di memoria collettiva, riportando su carta usi, costumi, modi di vivere e spiritualità del suo popolo.

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Leonora Miano assieme a Lara Ricci
© Alberto Paolo Palumbo. Tutti i diritti riservati

Tuttavia, se nel romanzo non appaiano nomi di luoghi e personaggi e i personaggi non sono presentati usando categorie razziali, è perché il punto di vista dei protagonisti comporta un modo di concepire la realtà in cui non vi è nozione di secolo, non vi è consapevolezza di vivere in un continente chiamato Africa e non vi è distinzione in razze. Ciò che la scrittrice chiede ai suoi lettori è abbandonare il proprio mondo e modo di pensare per un mondo del tutto nuovo. Leonora Miano vuole mostrare un mondo che i lettori non conoscono e che è stato completamente distrutto, e lo fa facendo parlare le donne, celebrando, come sostiene la stessa autrice, la sua felicità come donna, essendo La stagione dell’ombra il romanzo dei suoi quarant’anni come donna appagata nella sua femminilità. L’autrice ha messo in luce anche il fatto di poeticizzare la realtà, usando anche espressioni tipiche del suo popolo, e ha ribadito l’importanza di recuperare una tradizione che a causa dell’evangelizzazione del suo paese sta per sparire e di mostrare sguardi nuovi sulla realtà.

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Molto interessante è stato il collegamento che Lara Ricci ha tirato in ballo con autori afroamericani come James Baldwin, Langston Hughes e Toni Morrison, a cui l’autrice ha risposto ribadendo l’esigenza di creare un ponte tra le diverse esperienze della tratta per narrare ciò che ancora non è stato narrato. La materia prima della letteratura, sostiene Leonora Miano, è l’essere umano, che non cambia da millenni, con persone potenti che perpetrano il male, ma anche persone semplici con una vita ordinaria a cui succede qualcosa di insolito come l’incendio del romanzo, ma che tuttavia decidono di resistere.

La città dei prodigi, La Barcellona di Eduardo Mendoza

È del 17 novembre, ore 11:00 presso la Sala Viscontea del Castello Sforzesco di Milano, l’evento che ha per protagonista lo scrittore spagnolo originario di Barcellona Eduardo Mendoza, vincitore nel 2010 del Premio Planeta, nel 2015 del Premio Kafka e nel 2016 del Premio Cervantes. L’occasione che ha portato a organizzare questo evento, che ha visto la conduzione della giornalista Lucia Capuzzi, è la ripubblicazione presso i tipi di DeA Planeta del romanzo La città dei prodigi (acquista), pubblicato in Spagna nel 1986.

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Eduardo Mendoza assieme a Lucia Capuzzi
© Alberto Paolo Palumbo. Tutti i diritti riservati

In questo romanzo, che tratta dell’evoluzione della città di Barcellona, Eduardo Mendoza si mostra un profondo conoscitore della città. Lo scrittore ha affermato di scrivere per conoscere la città, per investigarla, ripercorrendo la sua storia attraverso delle ricerche. Eduardo Mendoza ha aggiunto che ogni città è diversa per chi la vive o la visita.

Il romanzo tratta un evento cruciale per la storia di Barcellona, ovvero l’Esposizione universale del 1888, evento che catapulta Barcellona in una dimensione internazionale, al di fuori dai suoi confini provinciali. Il protagonista di questa storia, Onofre Bouvila, che arriva a Barcellona da bambino dopo un’esperienza fallita da immigrato a Cuba con i genitori, è in realtà un antieroe, poiché l’intento dello scrittore è mostrare come le città vengano plasmate da persone cattive attraverso la speculazione e la violenza. Quello di Onofre è un personaggio che si ispira a vari personaggi storici realmente esistiti a Barcellona, da cui Eduardo Mendoza ha preso delle particolarità da dare al personaggio. 

Parlando di personaggi storici, lo scrittore ha affermato che un modo per parlarne è non preoccuparsi della verità storica, poiché questi personaggi storici vengono messi al servizio del romanzo e il lettore non deve credere del tutto a ciò che legge, poiché, ad esempio, la zarina di Russia e Rasputin non hanno mai visitato Barcellona (cosa che succede nel romanzo) e Rasputin non si è mai seduto allo stesso tavolo di Onofre.

Il ritratto di Barcellona è quello di una città come fenomeno di collettività sociale, economica e storica, che l’autore affronta dopo averla vissuta non solo direttamente, ma anche lontano da essa, facendo ricerche, interrogando molte persone che hanno avuto modo di vivere quel periodo particolare della storia della città e visitando i luoghi della città. Quello che si è prefisso di fare Eduardo Mendoza è scrivere un racconto su Barcellona che non sia né troppo storiografico né troppo narrativo, cercando un giusto equilibrio tra i dati storici e la sua immaginazione, aggiungendo quella scintilla di vitalità che mancavano nei libri di storia che ha letto sulla Spagna, la Catalogna e Barcellona. Il motivo per cui sceglie di narrare l’Esposizione universale del 1888 è perché è il momento cruciale per Barcellona, che da città provinciale diventa città internazionale che compete con Parigi, Londra e Amsterdam.

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Lo scrittore ha poi proseguito parlando del suo rapporto con il castigliano, che considera lingua di cultura, della sua educazione e della sua scrittura, e il catalano, dalla cui letteratura si sente influenzato, ma anche del suo modo di scrivere libri e dei libri a cui tiene di più. Inoltre, ha proseguito, incalzato dalle domande dei presenti alla conferenza e di Lucia Capuzzo, parlando di riferimenti letterari e di giovani che si vogliono avvicinare alla scrittura, consigliando loro di scrivere con costanza e senza pensare alla pubblicazione di ciò che scrivono o ai loro futuri lettori o alle loro eccessive ambizioni, fino ad arrivare a parlare di alcuni suoi romanzi come Sin noticias de Gurb El misterio de la cripta embrujadanei quali si nota una certa ironia grazie alla quale si racconta la propria realtà adoperando un certo distacco senza rinunciare al realismo. Infine, l’autore ha chiuso la conferenza parlando di Barcellona come una città che è cambiata molto: città di turismo, città agitata, commerciale, industriale, che ha visto sia la decadenza che una certa importanza storica, una città che come poche altre si adatta ai cambiamenti. Una città che, se prima era tragicamente sconosciuta, oggi è un punto di riferimento internazionale.

La solitudine del pesce rosso: i racconti di un Kafka israeliano

Sempre in data 17 novembre, alle 13:00 in Sala Viscontea, ha avuto luogo la presentazione dell’ultima raccolta di racconti dello scrittore israeliano Etgar Keret, conosciuto per la sua ironia e per essere un autore di racconti brevi. A moderare l’incontro lo scrittore Alessandro Mari, che nel corso dell’evento ha anche letto alcuni racconti tratti dalla raccolta Un intoppo ai limiti della galassia (acquista), pubblicata da Feltrinelli e presentata durante l’evento.

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Etgar Keret assieme ad Alessandro Mari
© Alberto Paolo Palumbo. Tutti i diritti riservati

Alessandro Mari ha dato il via all’evento parlando di come i racconti di Etgar Keret rimangano dentro a lungo e di come sia difficile parlare di uno scrittore che è assurdo ma allo stesso tempo realista, tragico ma comico, tragicomico e umorista. Lo scrittore italiano ha chiesto a Etgar Keret perché continui a scrivere ancora racconti dopo 20 anni, al che lo scrittore israeliano ha risposto dicendo che scrive quando sente un’emozione dentro di sé, per necessità di condividere una storia. Narrando l’aneddoto di un signore a cui scivolava sempre il giornale per terra mentre beveva il caffè, incontrato mentre si stava recando a un incontro di lavoro, Keret ha raccontato di essersi commosso, poiché ha capito quanto noi tutti siamo in realtà incasinati e quanto quel signore rappresenti una condizione universale. Lo scrittore ha continuato affermando che la solitudine fa da filo rosso alle sue storie, non solo fisica, ma anche intima. I personaggi cercano di uscirne, ma falliscono, e tuttavia non si arrendono, così come non si arrende l’autore, perseguendo l’anelito a rendere la vita migliore.

Etgar Keret ha affrontatoanche il rapporto tra padri e figli, sostenendo che da un lato i padri è sempre timoroso e ansioso di sostenere e proteggere i figli nel pazzo mondo in cui viviamo, e dall’altro la gioia e la tensione dei figli di vivere il mondo. Scrivere, pertanto, aiuta l’autore a capire se stesso come uomo e come padre, e il fatto di avere un figlio che lo osserva gli fa riflettere molto sulla sua condizione di essere umano.

Dopo questo excursus, si è parlato anche di conflitto israelo-palestinese. L’autore afferma che sì, se ne parla poco ultimamente, ma lui lo tratta in maniera simbolica, più velata e oscura, e lo fa inconsciamente, perché ha sempre avuto a che fare con eventi del genere, che riguardano vicende ingiuste, ma quello che propone è una visione più allargata, che riguardi tutti. Affrontando il tema della sofferenza, l’autore sostiene che il Medio Oriente è conosciuto al mondo per la sua capacità di soffrire, ma asserisce che sia israeliani che palestinesi sono campioni di vittimismo, denunciando questa condizione, poiché così non si va avanti e ognuno rinuncia al proprio senso di responsabilità. Parlando di dolore, un racconto della raccolta tratta di due turisti che stanno affrontando il loro divorzio e che di fronte alle immagini della Shoah in un museo hanno timore a confrontarsi con un dolore più grande del loro. A questo proposito, l’autore ha ricordato di come, essendo figlio di sopravvissuti alla Shoah, abbia sempre cercato di non piangere e non manifestare dolore, poiché il suo dolore non merita il pianto ed è un dolore che offende la memoria di quello che i suoi genitori hanno vissuto nei campi di concentramento, e il racconto del museo è la prova di come sia impossibile provare un dolore più grande di quello di chi è sopravvissuto all’Olocausto.

La conferenza si è conclusa con un’osservazione di Alessandro Mari, secondo il quale i racconti di Etgar Keret sono fotogrammi di un film da ricostruire, e con la sua lettura del racconto Di notte, chiedendo allo scrittore in quale personaggio si identifichi, domanda alla quale ha risposto con un semplice «tutti loro».

Migrazione, cambiamento climatico e conflitto tra uomo e natura: il mondo sull’orlo di una trasformazione inarrestabile

L’ultimo evento a cui ho preso parte ha avuto luogo sempre il 17 novembre in Sala Viscontea alle 17:00. L’evento ha avuto come protagonista lo scrittore e antropologo indiano Amitav Ghosh, di cui Neri Pozza ha pubblicato il suo ultimo romanzo, L’isola dei fucili (acquista), presentato dallo scrittore in compagnia della scrittrice ed editrice Ginevra Bompiani.

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Amitav Ghosh assieme a Ginevra Bompiani
© Alberto Paolo Palumbo. Tutti i diritti riservati

Dopo una parentesi di Ginevra Bompiani sulla sua esperienza con la lettura dell’ultimo romanzo dello scrittore, parlando di capovolgimenti, parole di presagi, incontri, caso e probabilità, passando per Eduardo Viveiros de Castro e Davi KopenawaAmitav Ghosh ha esordito parlando di come, di fronte a crisi attuali, molti intellettuali speculino sul futuro. Citando Giorgio Agamben, per il quale molti di noi, guardando al futuro, operano una proiezione di potere, lo scrittore invita a guardare al passato e al presente per vedere cosa è possibile e cosa è stato possibile fare prima dell’arrivo del consumismo, invitando a cercare la salvezza nell’utero della terra. Metafora di ciò è la Basilica di Santa Maria della Salute a Venezia, simbolo per lo scrittore della fragilità dell’esistenza umana, basilica eretta dai veneziani a seguito della peste del 1630. Lo scrittore invita ad ascoltare questo grido della fragilità umana proveniente dal passato, invece di mostrare arroganza verso il mondo, e a questo proposito pensa al fenomeno dell’acqua alta che ha coinvolto la città di Venezia, fenomeno che dovrebbe farci riflettere molto su ciò che sta accadendo attorno a noi.

Lo scrittore ha poi proseguito parlando del romanzo, dicendo che non c’è una connessione diretta con il precedente Nel paese delle maree, pubblicato sempre da Neri Pozza, ma nel 2005, anche se nel momento in cui ha scritto L’isola dei fucili, in parte ambientato nelle Sundarbans, foresta di mangrovie indiane situata tra Bangladesh e Bengala Occidentale e che fa da sfondo alle vicende del primo romanzo qui citato, gli sono venuti in mente alcuni personaggi, come Piya Roy, biologa marina specializzata in Orcaella brevirostris, personaggi che rimangono sempre e che possono tornare da un momento all’altro. 

Dopo aver parlato di alcune esperienze misteriose e bizzarre avute dopo la pubblicazione del libro e che a esso sono collegate e aver approfondito la figura della dea dei serpenti Manasa Devi, che secondo la leggenda è figlia illegittima del dio Shiva, e che oltre a essere la dea dei serpenti e delle calamità naturali è una figura che da voce ai non umani, Amitav Ghosh ha avuto modo di rispondere alle domande del pubblico. Dopo aver ribadito come tra Nel paese delle maree e L’isola dei fucili ci sia solo una sovrapposizione di alcuni personaggi e che siano libri completamente diversi che trattano argomenti diversiGhosh afferma che qualcosa riguardo alla coscienza climatica è cambiata, specie tra 2017 e 2018, con l’Italia che assume un ruolo leader per la sua esposizione a calamità come la desertificazione della Sicilia, l’alluvione a Genova e il fenomeno dell’acqua alta di Venezia, e che ha portato il Belpaese a inserire il cambiamento climatico come materia nelle scuole. L’autore ha proseguito sostenendo che la sfida letteraria più grande è dare voce ai non umani, non solo animali e piante, ma anche altri esseri, e che il tangibile non è l’unica via possibile, ma come ci insegna lo sciamanesimo e Giordano Bruno con la metempsicosi, esistono infiniti universi possibili.

Alla questione dell’incapacità della letteratura e della cultura di parlare del cambiamento climatico, lo scrittore ha risposto affermando che non è un’incapacità propria degli intellettuali, in quanto in passato sono stati in grado di affrontare molti problemi e molte sfide, ma è un’incapacità propria della fine del XX secolo, quando si è imposta l’estetica del consumismo e dell’individualismo, che secondo l’autore ha portato a bistrattare autori come John Steinbeck, che in Furore ha affrontato una tematica simile all’emergenza climatica, e che è stata supportata secondo l’autore dalla CIA e dal KGB, che hanno impedito un avvicinamento tra arte e realtà, la prima finanziando mostre di arte astratta, impressionistica, che propone ideale artistico depoliticizzato, e il secondo il realismo socialista, influenzando anche le scuole di scrittura. L’autore, però, ha menzionato come esempio di autore che ha recentemente affrontato il tema ecologico Richard Powers e il suo Il sussurro del mondoche dà voce ai non umani, in questo caso gli alberi.

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Infine, c’è stato spazio anche per i movimenti ambientalisti e le proteste di giovani ragazzi come Greta Thunberg. L’autore afferma che Greta Thunberg e i ragazzi come lei hanno ragione a mostrare rabbia, poiché la generazione del passato ha sperperato quello che aveva senza pensare al futuro. Il consumismo, secondo Ghosh, ha generato un debito con la terra nella forma di rifiuti, gas serra, che le generazioni future si ritrovano a dover risarcire. La rabbia di Greta Thunberg, secondo l’autore, è ineluttabile, inesorabile e senza compromessi, e lo scrittore l’ammira molto. L’autore, inoltre, sostiene di essere in contatto con molti ambientalisti, ma rigetta idee come quelle dei collassologi, teorici francesi dell’apocalisse, soprattutto ecologica, del mondo, che ritiene una teoria imposta dall’alto. L’autore ha ribadito fin dall’inizio della sua carriera la regola ferrea di non parlare di apocalisse, poiché in India l’apocalisse avviene ogni giorno.

Quello che vuole fare, chiudendo la conferenza con un altro riferimento a Giorgio Agamben, è indagare cosa rimane ancora che ci rende umani.

Conclusioni

Anche l’edizione di quest’anno di Bookcity si è confermata un evento che ha saputo coinvolgere tanti lettori, proponendo temi interessanti come il focus sulle Africheil gemellaggio tra Milano e Barcellona, e coinvolgendo tante realtà della città di Milano e tante personalità della letteratura, dell’editoria e della cultura italiana e no.

Gli eventi di cui si è trattato sono senza dubbio eventi che hanno lasciato il segno: Max Lobe e la sua doppia diversità come camerunense e omosessuale in Svizzera; Leonora Miano e la memoria della tratta atlantica degli schiavi e delle vittime di quel tragico evento del XVII secolo; Eduardo Mendoza e una Barcellona città prodigiosa che cambia nel tempo e che si adatta ai cambiamenti; Etgar Keret e la solitudine, il rapporto padri e figli, il conflitto israelo-palestinese e la sofferenza; Amitav Ghosh e il problema delle migrazioni e del cambiamento climatico, tematiche che ci riguardano molto da vicino e che stanno riconfigurando la nostra realtà. Con queste osservazioni, non resta che aspettare con ansia la prossima edizione della kermesse letteraria meneghina.

Tutte le foto, compresa l’immagine di copertina, sono di proprietà dell’autore dell’articolo.

Alberto Paolo Palumbo

Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee all'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca.
Sente suo quello che lo scrittore Premio Campiello Carmine Abate definisce "vivere per addizione". Nato nella provincia di Milano, figlio di genitori meridionali e amante delle lingue e delle letterature straniere: tutto questo lo rende una persona che vive più mondi e più culture, e che vuole conoscere e indagare sempre più. In poche parole: una persona ricca di sguardi e prospettive.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda.