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Caligari e la trilogia romana
sulle orme di Pasolini

9 minuti di lettura

Claudio Caligari

Se n’è andato un po’ troppo presto, Claudio Caligari. Ma forse, anche se fosse vissuto più dei 67 anni che la malattia gli ha concesso, la sua opera sarebbe rimasta identica a com’è ora. Non amava i riflettori, la notorietà non era tra i suoi obiettivi primari. Dal suo esordio con il film documentario Perché droga all’ultima e postuma fatica Non essere cattivo, l’attenzione di Caligari si è concentrata sulla periferia della città che lo aveva adottato, Roma, e su quei figli di nessuno che finivano per divenire preda della tossicodipendenza.

La cosiddetta trilogia di Caligari prende corpo a metà degli anni ’80, ma si sviluppa nell’arco di un trentennio. Nel 1983 esce Amore tossico, che risente ancora così tanto del periodo documentarista del regista che quasi si fatica a definirlo “film”. Nel 1998 è la volta di L’odore della notte, grazie a cui inizia il sodalizio con Valerio Mastrandrea. Sarà proprio lui, diciassette anni dopo, il produttore di Non essere cattivo, che chiude idealmente il “ciclo dei vinti” caligariano.

In L’odore della notte Mastrandrea è Remo Guerra, poliziotto borgataro di giorno e capo di una banda criminale di notte. Il piccolo gruppo di sgherri mette in atto una serie di rapine dal modus operandi piuttosto particolare: vengono scelte “vittime” benestanti, rappresentanti del ceto medio-alto romano, seguite fino a casa e rapinate di tutti i loro beni. Ma lo scopo di Remo non è tanto quello di arricchirsi. Si tratta, soprattutto, del desiderio di ribellarsi, di condurre una sorta di “lotta di classe” con le armi dei poveri. Con il realismo crudo che lo contraddistingue, Caligari mette in scena la Roma degli anni di piombo, subito dopo il boom economico degli anni ’60, che ha lasciato molte illusioni e molta, troppa disparità.

Pur essendo pienamente in linea con lo stile di Caligari, però, L’odore della notte è forse il più eccentrico tra i film della sua “trilogia”. Un filo più robusto, infatti, lega i due lungometraggi che, rispettivamente, lo precedono e lo seguono. E non soltanto perché le vicende, se così si possono chiamare, ruotano intorno alla droga, ma soprattutto perché è Caligari stesso a istituire una serie di collegamenti così evidenti che è impossibile non tenerne conto.

Amore Tossico si inserisce pienamente nel filone neorealista del cinema tra gli anni ’70 e ’80. Qui è ancora fortissima l’impronta documentaristica di Caligari, che d’altra parte, si racconta, ebbe l’idea per questo film proprio mentre girava il suo documentario Perché droga, parlando con i veri tossici e scoprendo che il motivo principale – se non l’unico – per cui assumevano eroina era perché permetteva loro di provare sensazioni piacevoli, almeno per qualche minuto. Gli interpreti non sono attori professionisti, ma ragazzi e ragazze di strada, accomunati dall’avere (o avere avuto) storie di droga. Tenendo a mente questo, è facile apprezzare le vicende di Cesare, Enzo, Ciopper e Michela. Il film, si può dire, non ha una trama: è quasi un documentario, la ripresa fedele di uno spaccato di vita di questi ragazzi dipendenti dall’eroina e desiderosi, ma al tempo stesso incapaci, di andare oltre. La recitazione è di basso livello, i dialoghi talvolta persino troppo “romanacci“, ma è esattamente questo che Caligari desiderava: non attori che interpretano una parte, ma persone vere che interpretano se stesse.

Il richiamo stilistico e tematico è all’Accattone di Pasolini; è lo stesso regista a renderlo esplicito in una delle scene finali del film. Cesare e Michela, stanchi del loro stile di vita, decidono di farla finita con l’eroina; ma, come i condannati a morte con l’ultima sigaretta, si appartano per «farse l’ultima pera». I due si appoggiano a una costruzione in pietra bianca, si ficcano nel braccio la siringa, come tante volte hanno fatto in precedenza; e mentre Cesare realizza che, forse, la dose era un po’ troppo abbondante, Michela inizia ad avere le convulsioni e si accascia al suolo. All’improvviso l’inquadratura di allarga e capiamo che Cesare sta stringendo Michela, ormai in fin di vita, ai piedi del monumento dedicato a Pasolini, nel punto di Ostia dove è stato ritrovato il suo corpo.

Non essere cattivo è Amore Tossico ambientato dieci anni dopo, nella metà degli anni ’90, quando l’eroina ha lasciato il posto alle droghe sintetiche. Ma è una pellicola che va oltre il semplice rifacimento: offre un’alternativa, una sorta di universo parallelo in cui i protagonisti – o almeno uno di loro – scelgono un’altra strada. Le citazioni (e autocitazioni) di Caligari sono innumerevoli. I protagonisti sono Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi): i due portano gli stessi nomi dei personaggi principali, rispettivamente, di Amore Tossico e di Accattone. La scena iniziale è un omaggio all’opera del 1983: Cesare corre per il lungomare di Ostia e raggiunge Vittorio, che sta mangiando beatamente un gelato, esordendo con un «Ao’, io so’ incazzato fracico e te te stai a magnà’n gelato?». Impossibile non ricordare Ciopper ed Enzo, che all’inizio di Amore Tossico, cercano di capire se sia giusto spendere per un gelato i soldi che potrebbero essere impiegati nella droga.

Ma Non essere cattivo prende anche le distanze dalla pellicola degli anni ’80. È quasi buffo, infatti, notare la fobia di Cesare per le siringhe degli eroinomani disseminate sulla spiaggia; una fobia ben motivata, dal momento che sua sorella è morta di AIDS lasciando una bimba malata. L’ultimo film di Caligari ha voluto lasciare una speranza: la fine dei protagonisti di Amore Tossico non è l’unica possibile. Cesare e Vittorio desiderano riscatto, ci provano con tutte le forze e alla fine uno dei due lo ottiene. Anche il realismo, che sarebbe risultato un po’ anacronistico nel 2015, è attenuato e lascia spazio ad una trama ben costruita, a vicende appassionanti ma verosimili e a un finale spiazzante e commovente.

L’ultima fatica di Caligari, che non poté assistere al suo successo – ma nemmeno, fortunatamente, a molte ingiuste critiche – è stata candidata come film italiano agli Oscar nel 2015, venendo poi esclusa dalla nomination. Un destino un po’ triste, ma ben rappresentativo della scarsa fama che il suo regista ha goduto in vita. Secondo Valerio Mastrandrea, Caligari non mai stato apprezzato perché è stato l’ultimo in Italia a fare Cinema, quello con l’iniziale maiuscola, qualcosa che ormai ha fatto il suo tempo. Di certo, è uno di quei personaggi un po’ dimenticati, da conoscere, amare e un po’ odiare, per essersene andato portando con sé molto di non detto.

Silvia Ferrari

Classe 1990, nata a Milano, laureata in Filologia, Letterature e qualcos'altro dell'Antichità (abbreviamo in "Lettere antiche"). In netto contrasto con la mia assoluta venerazione per i classici, mi piace smanettare con i PC. Spesso vincono loro, ma ci divertiamo parecchio.

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