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Catalogna: ci hanno perso tutti. E ora che succede?

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La prima cosa che voglio dire, come sindaco di Barcellona, è un invito alla polizia, affinché fermi quelle azioni che da questa mattina stanno prendendo luogo nella nostra città. Si fermino immediatamente, perché non è accettabile che la polizia si scagli contro una popolazione mobilizzata per esercitare il proprio diritto di voto, in modo assolutamente pacifico. Una popolazione che si è messa in coda per esercitare il proprio diritto di voto, i suoi diritti e libertà. Il governo fermi la sua azione di polizia e poi potremo cominciare a parlare (…). Quello che sta accadendo oggi a Barcellona è molto grave (…). Oggi non stiamo parlando di un sì o no al referendum o di una rottura tra Catalogna e Spagna. Stiamo parlando di una rottura tra Majano Rajoy, il suo governo e la Catalogna. Con la sua azione Rajoy ha indebolito la Spagna e ha calpestato diritti e libertà fondamentali.

(Ada Colau)

Le parole del sindaco di Barcellona, Ada Colau, a termine della convulsa giornata di ieri, riassumono con estrema chiarezza le contraddizioni di un giorno triste per la Catalogna, per la Spagna e per l’Unione Europea. Il bilancio è stato quello di un bollettino di guerra: proiettili di gomma, cariche e oltre 800 feriti. Le immagini di volti insanguinati, persone caricate dalle forze dell’ordine e trascinate con la forza fuori dal seggio elettorale. Queste le immagini di Barcellona che resteranno impresse nel ricordo di chi guarda da fuori, di chi del referendum catalano non ne sapeva nulla prima, ma che ora, quasi per automatismo, si trova a simpatizzare – comprensibilmente – per la causa dei separatisti.

Già, perché il quesito posto agli elettori catalani – perché di elettori si tratta, in quanto aventi il diritto di esercitare il voto, fosse anche di tipo consultivo, come lo è, per fare un esempio nostrano, il referendum sull’autonomia della Lombardia – chiedeva la separazione da Madrid: «Vuoi che la Catalogna diventi uno Stato indipendente in forma di Repubblica?». Indipendenza quindi, non più autonomia, come era stato fino a pochi anni fa, dopo lo storico accordo tra l’allora premier socialista Zapatero e il presidente della Generalitat catalana, il socialista Maragall.

A questo punto, per capire come mai i separatisti catalani, prendono il sopravvento sugli autonomisti, è utile guardare alla storia e all’ormai lontano 2010, quando, il da poco eletto primo ministro Rajoy, non riconoscendo l’accordo per una maggiore autonomia alla Catalogna, siglato dal predecessore, porta il medesimo di fronte alla Corte Costituzionale, la quale boccia le concessioni fatte dal governo precedente. È in questo momento che il dialogo tra Barcellona e Madrid comincia quella lenta involuzione che arriva fino agli scontri di ieri e agli interrogativi di oggi.

Bene inteso, non tutti i catalani sostengono l’indipendenza dalla Spagna. Molti, anzi, considerano fondamentale ritornare al vecchio concetto di autonomia. Lo stesso referendum è stato istituito con una legge approvata all’inizio di settembre dal Parlamento regionale. A favore si è espressa la maggioranza che sostiene il governo (che rappresenta però il 48% dei voti popolari) e contro tutte le opposizioni. Per essere chiari, il Partito Socialista Catalano, che per lungo tempo ha guidato la Generalitat catalana e che, con Maragall, aveva negoziato maggiore autonomia, si è schierato contrario a questo voto. La maggioranza, governata attualmente da Carles Puigdemont, è un mix di forze di destra liberale e sinistra indipendentista, a riprova dell’eterogeneità dello schieramento che non ha uno specifico colore politico.

Le ragioni del referendum sono note. La Catalogna con capitale Barcellona è una delle 16 Comunità autonome. È la terza Regione spagnola per reddito pro capite di Spagna e contribuisce per il 20% del PIL nazionale e i catalani versano all’erario spagnolo più di quanto ricevano. Il “deficit fiscale” – o per restare vicini alla terminologia nostrana, il residuo fiscale – è collocato dagli indipendentisti attorno all’8% del PIL regionale. Vi è poi un motivo culturale, ben più profondo, che giustifica la volontà, da parte del governo catalano di staccarsi da Madrid, e affonda le proprie radici non solo nella storia millenaria ma anche nel più recente passato franchista. Barcellona repubblicana è stata l’ultimo baluardo contro l’invasione nera e primo bersaglio delle efferatezze del regime di Franco, che cercò di estirpare lo stesso catalano come lingua.

Se le ragioni del referendum sono note e le divergenze tra le due città spagnole altrettanto, che cosa ha determinato questa escalation di violenza cui abbiamo assistito in questi giorni? Si potrebbe riassumere in questo modo: la mancanza di lungimiranza politica e l’ottusità del primo ministro Marano Rajoy. Impugnando l’incostituzionalità della secessione, Madrid ha rinunciato al dialogo e ha negato l’esistenza di una questione catalana. La Guardia Civil ha arrestato alcuni dei principali responsabili dell’organizzazione materiale del referendum, sequestrato schede elettorali e software, chiuso siti web, vietato l’uso dei locali pubblici, diffidato sindaci e presidi dal collaborare al voto, messo sotto controllo i conti bancari della Generalitat, ipotizzato il reato di malversazione di denaro pubblico nel caso le spese per il referendum escano dalle casse della Comunità, comminato e ipotizzato multe anche milionarie ai responsabili politici.

Non solo, alla violenza della Guardia Civil si sono aggiunte le parole di sbeffeggiamento e irriverenza dl governo spagnolo, che anche nel giorno del voto ha accusato i votanti e i loro leader politici di aver organizzato una messa in scena. La polizia spagnola ha picchiato e usato la forza per fare uscire le persone dai seggi elettorali, ha rotto le porte e frantumato i vetri delle scuole. Ha usato i manganelli e gli idranti.

Nonostante questo bollettino di guerra, alla fine della giornata, hanno votato circa due milioni e mezzo di catalani, sui cinque e mezzo aventi diritto. Il sì ha nettamente prevalso sul no, 90% contro il 10%. Con la vittoria del sì, dovrebbe entrare in vigore la ley de desconexión (legge di separazione) che prevede la possibilità di una «dichiarazione unilaterale di indipendenza entro 48 ore». I rappresentanti delle istituzioni catalane hanno ribadito di essersi guadagnati il diritto a essere riconosciuti come stato indipendente e, per questo, chiedono al governo di aprire immediatamente un tavolo per le trattative.

Vedremo nelle prossime ore che cosa verrà deciso. Per ora rimangono le immagini della giornata di ieri. Polizia che manganella manifestanti pacifici, sangue e botte per le strade di Barcellona, idranti sulla folla, scuole occupate, un primo ministro incapace di gestire la situazione e un’assordante appello alla non legalità costituzionale di una consultazione referendaria, usata come scusa per non cercare il dialogo politico. Una pagina nera per la Spagna e per l’Unione Europea, attore tristemente muto di questa vicenda.

Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

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