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«Caurapañcāśikā»: alla scoperta dell’erotismo indiano

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7 minuti di lettura

Tramandato per lungo tempo in forma orale e apparso in Europa solo nel 1848 grazie ad una traduzione francese, Caurapañcāśikā, poemetto appassionato conosciuto in Italia come Il canto del ladro d’amore, è ancora oggi conosciutissimo in India e viene considerato uno dei testi cardini della poesia indiana medievale.

Risalente a un periodo compreso tra l’XI e XII secolo dopo Cristo e attribuito a Bilhana del Kashmir, Caurapañcāśikā è incentrato sull’amore tra la principessa Yaminipurnatilaka, figlia del re Madanabhirama, e lo stesso poeta. Una volta scoperta la relazione tra i due, l’uomo viene imprigionato e, in attesa di conoscere il proprio destino, si abbandona al fervore dei ricordi, rievocando i momenti felici con la donna. Il risultato sono cinquanta stanze e due finali differenti: la versione dell’India del sud e il lieto fine, con la commozione del re e la concessione della grazia, e la versione Kashmira, di epilogo incerto ma indubbiamente diverso.

Non un caso di fin’amor

Oggi ancora, lei, che splende inghirlandata
di magnolia d’oro,
volto di loto in fiore, tenue la linea della pelurie
sul ventre,
levata dal sonno, il corpo ardente turbato
dal desiderio,
magica sapienza come perduta per follia ripenso.

strofa I

Scrive Giuseppe De Lorenzo: «L’espressione è sensuale perché gli indiani, naturalisti e veristi sempre, non sottraggono mai dall’amore sessuale l’elemento sensuale che ne è parte imprescindibile». Non è un caso che ogni strofa cominci con la parola sanscrita adyápi (tradotta da Giuliano Boccali con «oggi ancora»), come a rievocare, quindi ravvicinare, «la massa dei capelli gocciolati / sullo stelo del corpo disteso», l’elemento sensuale ora fisicamente lontano, ma ben vivido nella memoria.

Non si tratta però di quel fin’amor al quale i trobadori, prima degli altri, ci hanno abituati. Se infatti i personaggi cortesi si trovano alle strette, costretti cioè a razionalizzare, giustificare una passione fuori luogo con trovate e accorgimenti – si pensi al canto V dell’Inferno dantesco, al racconto di Francesca e del libro “galeotto” – in India le gesta degli amanti hanno alta dignità, in quanto reiterano un’azione compiuta all’inizio dei tempi da un dio e rispondono quindi a un disegno ulteriore, a un rituale. E il ripetersi di questa “formula magica” (ri)sprigiona la condizione estatica, attraverso quello strumento che è il corpo.

«Caurapañcāśikā»: il dualismo, l’intrigo

È il corpo, ancora una volta, a lanciare un appello totale. I cinque sensi vengono chiamati tanto alla rappresentazione quanto alla celebrazione del corpo della donna: dalle «cosce di lei unte di sandalo» al morbido incedere, gli occhi disegnati dal kajal, il profumo e il sapore del gelsomino.

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Tale è la potenza evocativa da cristallizzare l’atto d’amore per restituirlo, intatto, di fronte ai sensi del lettore. Anche la natura (presente a ogni strofa, nonostante le scene ricordate si svolgano al chiuso) sembra trovare perfetta esemplificazione nel corpo dell’amata, paragonato ad eleganti animali e impreziosito dal profumo di piante aromatiche.

Oggi ancora, la mano colorata di rosso bocciolo
novello d’aśoka,
i capezzoli baciati da una ghirlanda di perle,
le guance ravvivate da un interno sorriso
lei, la mia amata dal morbido passo d’oca selvatica,
ricordo.

strofa XIV

Ma a irrompere sulla scena è anche la carne nuda, carne di cui l’amante si ciba e che si sfoga nelle umide notti d’estate. Un corpo che della passione conserva morsi e segni tangibili:

Oggi ancora, la sua occhiata furtiva nell’intimità
ricordo, il tendersi aggraziato del so corpo nel piacere,
la fine del bel seno scoperta all’ondeggiare del bordo
della veste,
e il labbro con la decorazione del segno dei miei denti.

Strofa XIII

La morte come compimento e non tragedia

Se, come testimoniano i versi del Caurapañcāśikā, sensualità e sessualità sono due aspetti complementari e naturali della concezione indiana, allo stesso modo amore e morte sono indissolubilmente legati e, soprattutto, tappa necessaria dell’essere umano. Il fato non si può eludere, così come la Tartaruga – fedele all’immaginario indiano – regge il mondo sul proprio dorso e Śiva non può sottrarsi al veleno per salvare il creato.

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La morte, come osserva Antonio Salvati, viene infine invocata – e solo nella penultima stanza – per l’assenza dell’amata ed è considerata il mezzo per porre fine al dolore causato dal desiderio di passione. Un desiderio che porta a compimento la realizzazione di Kama (dio incarnazione dell’amore) e, per questo, è pronto a immolare l’intera vita di un uomo.

Oggi ancora, colorato di zafferano
seminato di gocce il volto dell’amata
alla fine ricordo, tremulo languido dopo l’amore
come volto di luna liberato dal demone dell’eclissi

stanza X

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.