La città d’estate, ovvero la morte della morte

Articolo della newsletter n. 52 - Luglio/agosto 2025

3 minuti di lettura

Per chi decide o non può che rimanere in città d’estate, i luoghi e i ritmi della vita quotidiana si trasformano. Lo spazio e il tempo mutano forma, si mettono a seguire altre coordinate rispetto al resto dell’anno, danno conferma alle preoccupazioni di chi crede che l’ambiente abbia una forza soverchiante rispetto alla capacità umana di adattarvisi.

Il tempo, anzitutto. Il tempo balza in avanti, si allunga, e allungandosi rallenta; le ore di sole stirano le giornate, rendendo interminabile la vita diurna. Per chi lavora, doppiamente interminabile: qualora il lavoro svolto sia effettuato all’aperto, senza protezioni, il caldo e l’esposizione al sole prosciugano la pelle dei suoi liquidi, rendono asfissiante ogni sforzo che consista nello spostare materiale o, più in generale, nel muovere il proprio corpo. Dislocarsi significa traspirare. Ma ciò vale anche per chi lavora al chiuso. Gli algoritmi, infatti, non ci hanno ancora fornito di mezzi per ripararci dal calore, o elidere il tempo d’esposizione all’aria aperta: ciò che in inglese si chiama commuting, lo spostamento dalla casa al luogo di lavoro, in città, d’estate, rende questa fatica – che Karl Marx diceva antropogenica, ma che è in realtà soltanto poco igienica – ancora più invivibile.

Per chi non lavora, o gode di pause dal lavoro, ed è costretto a vivere la città d’estate, è vero lo stesso. Ogni secondo estivo, inspessito dalla violenta luce del sole, sembra durare di più, sembra colare sul nostro ritmo quotidiano come una goccia di pece appena uscita dalla macchina per dare l’asfalto. L’odore dei due – del tempo d’estate e dell’asfalto colato – è identico, reso acre dalla consapevolezza che, anno dopo anno, le città saranno sempre più invivibili, che il cambiamento climatico farà il suo corso, indefesso, che le città – ecco cosa ci prefigura la calura – si svuoteranno.

E lo spazio? Lo spazio della città in estate è quello della solitudine, lo spazio marziano del deserto e dei luoghi inospitali – o ospitali per i curiosi, come i turisti. Il porfido che tappezza le strade cittadine sembra trasudare, esangue, un calore che non può assorbire; i mattoni delle case ribollono immersi nella graticola di luglio, e irradiano un alito più che tiepido. Sembrano roventi, respingenti, ostili – come le strade, che, in assenza di pioggia, catturano la sporcizia, dilavata periodicamente dai temporali – caldi – che seguono i picchi di calore. Ma tutto, poi, ritorna come prima. Dall’asfalto delle strade, si riverbera verso il cielo il riflesso della luce, che inspessisce l’aria rendendola irrespirabile. D’estate, in città, camminare significa attraversare questo muro di calore, che si appiccica e s’incolla alle giunture del nostro corpo e della nostra quotidianità. Chi si incontra nelle vie del centro, poco prima del tramonto, quando la calura lascia un po’ di tregua, è una figura preistorica, che si muove come un’ombra – lentissima – ormai prossima all’estinzione.

Ecco che si palesa, allora, l’immagine reale della città d’estate. Lo spazio e il tempo si avvitano in questa spirale di calura estiva, che dà un’altra forma all’esistenza: la sua forma autentica, di qualcosa che vuol morire, ma non riesce. Dilatata nel tempo, la città d’estate è la prefigurazione di un tempo che si è ritratto in sé fino a negarsi: è il tempo che nega se stesso. Appesantita nello spazio, la città è continuamente richiamata alla indistinzione primordiale tra l’ambiente e il suo contorno, è il tentativo dello spazio di rendersi – come scrive Roger Caillos – simile a se stesso. E la solitudine che si spalanca in questo frangente non è nostra – o non è nostra soltanto; è la solitudine reale dell’esistenza: i vecchi in attesa che il giorno finisca, nel buio dei loro vecchi salotti; i lavoratori e le lavoratrici a casa nel weekend; i bambini al termine dei centri estivi; i malati, inchiodati alle loro poltrone. Vi è una disperazione esistenziale in questa calura, che esaspera ciò che il filosofo Miguel de Unamuno chiamava “il sentimento tragico della vita”.

Con la sua tragica verità, però, viene anche il riscatto. L’estate finisce. La città torna a ripopolarsi. Le piogge autunnali spazzano la calura; la luce diurna si accorcia e torna a dar tregua. Le piazze diventano, sempre di nuovo, luogo di incontro e socialità. Si respira, ancora una volta. Questa ciclicità, che indica chiaramente come il momento più bello dell’estate sia la sua fine, sembra alludere a qualcos’altro: ovvero che la morte della morte, e quindi l’affermazione della vita, non smette mai di ripetersi, e che è solo nell’accettazione del suo necessario incedere che sembra esserci concesso, anche a noi, la nostra parte di felicità. Chissà se è proprio questa “l’invincibile estate” di cui parlava Albert Camus.


Illustrazione di Giada Collauto

Questo articolo fa parte della newsletter n. 52 – luglio/agosto 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.