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Città, tra disuguaglianze e speranza. Intervista a Michele Grimaldi

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13 minuti di lettura

«Chissà, forse camminando in senso opposto sulla stessa strada giovani studiosi e giovani politici si incontreranno e decideranno di proseguire insieme. Sarebbe l’occasione per ricostruire un rapporto fecondo tra politica e cultura, condizione essenziale per trasformare le nostre città.»

Sono le previsioni, i timori, i racconti, gli insegnamenti e i punti di vista alternativi a costituire le fondamenta de La Macchia Urbana, il libro di Michele Grimaldi edito da Aracne Editrice per la collana di studi Sociologia, Economia, Territorio.

Definire in breve che cos’è il libro di Michele – classe 1982 e una genuina passione per la politica – non è facile. Se da una parte La Macchia Urbana è stato definito come «un appassionato esercizio di critica del fenomeno urbano», un rapido sguardo al volume ci dice che dietro c’è molto di più: la storia incontra l’economia, la politica si mischia con l’urbanistica, la sociologia ritorna alla letteratura di Dickens ed Emile Zola.

A pochi giorni dall’uscita del volume abbiamo incontrato l’autore per farci spiegare qual è il cuore del libro, come nasce concretamente l’idea di scrivere una serie di riflessioni partendo dalla città e soprattutto perché – nonostante tutto – la parola che resta nella mente alla fine è una sola: speranza.

Scrittore, politico, studioso. Quale Michele Grimaldi troviamo dentro La Macchia Urbana?

«Ne La Macchia Urbana c’è tutto: c’è il Michele scrittore, il Michele politico, il Michele studioso, perché sono tre vicende che in tutti gli aspetti della mia vita in fondo si sono sempre tenute assieme. E non c’è per me scrittura senza studio, non c’è politica soprattutto senza studio, e non c’è studio senza la prospettiva di lasciare un contributo di analisi. È un libro in cui provo a mettere insieme tutte quelle che sono le mie esperienze, cercando di offrire un contributo di riflessione».

Il cuore de La Macchia Urbana è la città. Quella stessa città che – cito – «ci sembra il tutto, e a volte — nello stesso istante — il niente». Come è nata l’idea di questo libro?

«L’idea di questo libro nasce da viaggi su e giù per l’Italia, da anni di libri letti per curiosità, per studio, per tentativo costante di provare a comprendere le cose e da una riflessione che nasce qualche tempo fa: penso che da un punto di vista teorico-identitario mancasse un pezzo di ragionamento, non solo nella sinistra politicamente intesa, ma proprio guardando quelle discipline che analizzano e studiano la realtà. Penso che la crisi del 2008 abbia sconvolto i paradigmi di interpretazione del mondo che noi viviamo e che sia venuto completamente meno l’accordo tra capitale e lavoro che era la base delle moderne democrazie occidentali. Il 2008 apre una faglia nuova che vede da una parte le élite (che continuano ad accumulare risorse, privilegi, opportunità), e dall’altra parte una sempre più crescente massa di poveri che non ha opportunità, possibilità e – in qualche caso – non ha dignità. Questa frattura vive soprattutto all’interno del contesto urbano, quel contesto di quotidianità che è anche il grande centro decisionale del potere economico. Io penso che le città siano il luogo in cui questa faglia sia più visibile, dove tali fenomeni devono essere studiati e affrontati. Non possiamo più studiare ciò che abbiamo intorno con schemi e categorie del passato, dovremmo avere tutti la necessità – e io ci ho provato in questo libro – di leggere le categorie, le storture, le faglie del mondo di oggi in un modo diverso».

La Macchia Urbana è un percorso di analisi multidisciplinare del contesto. Come ha funzionato durante la stesura del libro questa convivenza tra le discipline?

«Questo libro è stato un viaggio tra cose che sono sempre state mie e cose che si sono formate e divenute convinzioni in un processo di studio durato molti mesi. L’interdisciplinarietà del libro è paragonabile ad un flusso, proprio perché la ricerca è una vicenda che non può avere paletti. Un mondo così complesso non può essere affrontato da un solo punto di vista: c’è bisogno di uno sforzo collettivo e complessivo per guardare con più e diversi occhi. Io ho provato con questo libro a spogliarmi delle mie convinzioni iniziali. Spesso nella stesura del libro ho cambiato interi capitoli: andando avanti mi rendevo conto che quello che avevo scritto e avevo sostenuto andava rivisto e sono ripartito da capo. Sono andato avanti e indietro, nel tempo nelle discipline, nelle convinzioni. Ci sono sfumature che ogni disciplina coglie meglio di un’altra: nel libro c’è lo sguardo della sociologia, dell’economia, della politica, della letteratura».

Il concetto di disuguaglianza. Tu hai provato a studiare tale fenomeno partendo dall’osservazione della città. Come è andata? Che valore aggiunto al libro ha dato questa riflessione?

«Il concetto di disuguaglianza è un fattore cruciale del libro, non a caso già Platone parlava di “città dei ricchi e città dei poveri”. La tesi che io sostengo nel volume è che la città stessa nasce come luogo in cui se da una parte c’è lo spazio per l’accumulazione del capitale, dall’altra c’è lo sfruttamento di grosse fasce di popolazione. E questo è visibile in ogni passaggio storico: prima la città aveva delle mura esterne che garantivano sicurezza, protezione, appartenenza, ma anche esclusione e diversità tra chi stava dentro e chi stava fuori. Oggi queste mura sono all’interno della città stessa e il discrimine tra queste mura spesso è il censo. La diseguaglianza che cogliamo nelle città è figlia delle fratture della società, ma anche delle politiche neoliberiste, la fine dell’investimento pubblico, la fine dello stato sociale. La solidarietà per le fasce più deboli scompare, mentre un pezzo di città diviene sempre più ricca ed entra nel flusso della globalizzazione. E in questo discorso c’è il grande tema della gentrification, con gli abitanti storici dei quartieri espulsi a favore di nuovi abitanti che alzano i prezzi dei consumi, degli alloggi, dei costi. Qualcuno parla di “riqualificazione urbana”. Io penso sia il lato peggiore di quella diseguaglianza che continua a crescere nel contesto urbano».

La Prefazione al tuo libro è scritta da Walter Tocci, il quale ha definito il tuo lavoro un «intenso impegno intellettuale» ma anche «un libro da leggere, conservare, diffondere». Come è nata questa collaborazione? Come si sono incrociati i vostri percorsi umani e professionali?

«L’Onorevole Tocci per me è un amico, ma anche un esempio e un maestro. Ci siamo conosciuti ai tempi del movimento studentesco. È stato un punto di riferimento per molti di noi e ci ha insegnato che la realtà per essere cambiata va interpretata. Molto del lavoro che mi ha spinto verso La Macchia Urbana nasce da riunioni, assemblee, discussioni, confronti».

Ne La Macchia Urbana si parla di storia, economia, politica, urbanistica, ma c’è spazio anche per riflessioni su modelli alternativi di città e prospettive per il futuro. Da dove nascono queste riflessioni? Che ruolo ha giocato il tuo impegno politico di questi anni?

«Mi sembrava giusto e doveroso chiudere con un elemento di speranza, non solo dal punto di vista narrativo, ma perché mi sono interrogato per tutta la stesura del libro su quale dovesse essere la necessaria alternativa a quello che stavo osservando. Da questo punto di vista ha giocato un ruolo importante la mia esperienza politica di questi anni come consigliere comunale e la mia militanza nell’organizzazione giovanile. Ho viaggiato, incrociato tante esperienze associative, incontrato giovani da tutta Italia, e da lì ho osservato per cercare modelli alternativi di città. Dalla privatizzazione asfissiante e l’incapacità del sistema pubblico nel garantire pari accesso, pari dignità, innovazione civica e partecipazione attiva come si esce? Da questo punto di vista il tema dei commons – cioè dei beni comuni – sembra una soluzione importante che deve essere sperimentata. È un fenomeno che vive una nuova fase di analisi, di studio, di codificazione. Quando parliamo di commons parliamo di quei luoghi che appartengono a tutta la comunità e di cui tutta la comunità è responsabile. Elevare i commons ad obiettivo politico delle tante reti diffuse nel territorio può essere una nuova chiave di lettura per costruire un nuovo percorso di partecipazione, un modello, un nuovo paradigma da cui ripartire per proporre un sistema alternativo. Ho cercato anche di porre l’attenzione sul tema della pianificazione come strumento per abbattere le diseguaglianze, per far diventare la città un luogo di proprietà dei cittadini, nel quale l’esigenza primaria è che i cittadini abbiano diritto alla dignità, alla salute, alla casa, alla possibilità di muoversi o studiare. È un modello alternativo a quell’idea di competitività per attrarre flussi di denaro: quando si pianifica si dovrebbe pensare alla qualità della vita di chi abita quotidianamente il territorio».

Qual è la cosa più bella che il libro ti ha lasciato?

«Questo libro è stata un’esperienza quasi del tutto nuova, pur non essendo questa la mia prima pubblicazione. Lo studio e la scrittura sono strumenti faticosi ma belli, che devono essere necessari nella testa e nei cuori di coloro che vogliono provare a dare un proprio contributo per cambiare la comunità che vivono. Questo continuare a cercare è stato, dal mio punto di vista, l’esperienza più bella che mi ha dato la stesura di questo libro».

 

 

 

Agnese Zappalà

Classe 1993. Ho studiato musica classica, storia e scienze politiche. Oggi sono giornalista pubblicista a Monza. Vicedirettrice di Frammenti Rivista. Aspirante Nora Ephron.

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