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Congo: facciamo chiarezza sul simbolo dell’Africa emergente

14 minuti di lettura

Nella giornata di lunedì 22 febbraio arriva la notizia dell’attacco ad un convoglio delle Nazioni Unite nel parco del Virunga, in Congo. A perdere la vita sono Luca Attanasio, unico ambasciatore italiano a Kinshasa, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista dell’auto che li trasportava, Mustapha Milambo. Il parco del Virunga è situato ad est del Paese, l’auto partita da Goma nel Nord Kivu era diretta a Rutshuru per un programma del World Food Programme dell’Onu. Il WFP è la più grande organizzazione che si impegna nell’aiuto a 100 milioni di persone in 88 Paesi per salvarli da crisi alimentari e climatiche, fornendo cibo o contante, programmi di sostegno e attività partecipative per la resilienza al clima. Il programma mira, inoltre, a costruire partenariati per sostenere l’attuazione degli obiettivi fissati nelle diverse aree, dando un contributo agli sforzi dei governi.

Poco dopo l’attacco al veicolo, sono intervenuti i rangers del parco ed è iniziato uno scontro a fuoco, proseguito con il rapimento di sei persone. Non è stata ancora definita chiaramente la ragione dell’assalto, tuttavia non si tratta di un episodio di violenza insolito. La provincia del Nord Kivu, una delle ventisei della Repubblica Democratica del Congo, è da tempo protagonista di scontri tra i diversi gruppi militanti vicini. Confina infatti ad est con Uganda e Ruanda, e ciò la rende soggetta ad attacchi da parte delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) e alle Forze democratiche alleate Ugandesi (Afd). Il convoglio in viaggio era privo della scorta di caschi blu dell’Onu, in quanto la strada era stata ritenuta sicura.

Peace keeping o peace finding?

Il nodo più controverso è proprio l’aver ritenuto sicura una strada in quella provincia. La Repubblica Democratica del Congo fa parte del programma di peacekeeping MONUSCO dell’Onu, avviato mediante la risoluzione n. 1925 del 28 maggio 2010, prosecuzione della precedente missione MONUC. La conclusione, prevista per il 2020, è stata prorogata il 18 dicembre dello stesso anno fino al 20 dicembre 2021; decisione che suggerisce la complessità del compito e le difficoltà nel raggiungere la “pace” sperata.

L’obiettivo della missione è quello della stabilizzazione dei conflitti nell’area e il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha evidenziato due priorità strategiche da seguire: la sicurezza dei civili e il supporto per la stabilizzazione, il rafforzamento delle istituzioni pubbliche del governo maggiore e delle riforme per la sicurezza. La protezione dei civili ha in sintesi l’obiettivo di fermare le violenze subite dagli stessi da parte dei gruppi armati, preponderanti proprio nella parte est del Congo. Si cercano di rafforzare i diritti umani, e di lavorare (se possibile anche insieme alla FARDC, le forze alleate della RDC) per neutralizzare le forze nemiche e i loro atti di violenza, rivolti specialmente nei confronti dei rifugiati. Il secondo punto, si concentra invece sul buon funzionamento dello Stato e del sistema di giustizia, che deve subire un’accelerazione e creare un sistema inclusivo con chiari indicatori e linee guida, per garantire a tutti un giusto livello di sicurezza. Di pari passo con una smilitarizzazione dei gruppi armati. La missione coinvolge 17.700 persone di cui 12mila militari e il rimanente civili, e apporta un costo di circa un miliardo di euro l’anno.

Dato l’ammontare di risorse umane e monetarie investite, ci si interroga sulla capacità di riuscita dei programmi, e sorgono dubbi sulle valutazioni che vengono effettuate nei confronti delle aree di interesse, tanto che la Farnesina ha chiesto chiarimenti sulla mancata presenza di una scorta per l’ambasciatore. La responsabilità sembra essere attribuita all’organizzazione del trasporto del WFP. Nel 2018 era stato inoltre esplicitamente richiesto da Attanasio un supporto di protezione nel caso dei rifornimenti a causa delle imminenti elezioni presidenziali e nazionali, disposto solamente per tale periodo, e successivamente rimosso.

Congo: come ci siamo arrivati

La storia dietro agli odierni conflitti che dominano la Repubblica Democratica del Congo, è ricca di avvenimenti e colpi di stato brutali, che hanno caratterizzato una serie di date significative. Il Congo era un ex colonia belga, dopo aver ottenuto l’indipendenza il 30 giugno 1960, grazie al Movimento Nazionale Congolese di Patrice Lumumba, subì una forte crisi, dovuta alla mancanza di una classe dirigente in grado di creare un governo solido e la presenza di numerose e diverse etnie interne. Dopo un primo conflitto, dovuto alla struttura dell’assetto governativo che sfociò in una guerra civile, arrivò il golpe del colonnello Mobutu il 14 settembre 1960. La Provincia orientale del Congo, il Kivu e il Kasai si sottrassero però al controllo del nuovo governo e rivendicarono l’anarchia che ne determinò una paralisi economica. Dopo anni di continue tensioni e conflitti, nel 1965 Mobutu intervenne con un ulteriore colpo di Stato, creando un regime autoritario accentrando su di sé le più importanti cariche dello Stato. Da presidente e primo ministro tramutò la Repubblica in Repubblica Presidenziale, e formò successivamente un regime a partito unico fondendo la sua struttura con quella dello Stato stesso. Il Paese assunse il nome di “Zaire”. Dal punto di vista economico fu però un disastro, e nel tempo costrinse il regime ad avvicinarsi alle potenze occidentali, specialmente dopo la fine della guerra fredda, con la quale si trovò tuttavia in difficoltà a causa dell’assetto autoritario e delle divergenze sul fronte dei diritti umani. Indebitamento, crollo economico e forti tensioni popolari dovute all’elevata disoccupazione, costrinsero Mobutu ad aprire nel 1990 le porte alle opposizioni e a preparare la transizione ad un regime democratico. Nel 1996 si formò un fronte di liberazione nazionale guidato da Kabila, un veterano della guerriglia, e le condizioni fragili e precarie del regime gli permisero di salire al governo. Da qui diede inizio alla ricostruzione del Paese, rinominato “Congo”. Poco tempo dopo, nel 1998 scoppiò però un’altra guerra civile: la “Grande guerra Africana”. È stata la guerra più distruttiva del continente ed ha coinvolto otto nazioni africane e circa venticinque gruppi armati. L’esito è stato, grazie all’intervento dell’Onu, la formazione nel 2003 di un Governo di transizione della Repubblica Democratica del Congo sotto la guida del figlio di Kabila. Nonostante i tentativi e le riconferme alla presidenza di Kabila nel 2006 e nel 2011, non si raggiunse mai una completa pacificazione del Paese. Nel 2008 inoltre, le conseguenze della guerra si fecero sentire, provocando da un lato 5,4 milioni di morti dovuti in gran parte a malattia e fame, e dall’altro un forte esodo di profughi che hanno cercato rifugio nelle nazioni confinanti.

Una panoramica sul Nord Kivu

L’ultimo rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, datato 21 settembre 2020, analizzando le condizioni di sicurezza della provincia del Nord Kivu, segnala vi sia stato un deterioramento della situazione riguardante gli scontri tra i gruppi armati sul territorio, che hanno portato a 107 incidenti per mano di queste milizie e contano 67 morti (34 uomini, 27 donne e 10 bambini) e 73 feriti. I pochi mesi che separano il resoconto del Consiglio di Sicurezza dall’attacco degli scorsi giorni difficilmente possono aver ritrovato un contesto favorevole con un allentamento delle tensioni. La ragione per cui il territorio è così conteso tra queste forze nemiche è la ricchezza della terra sulla quale vengono combattute queste rappresaglie. Le risorse minerarie disponibili sono particolarmente preziose: si trovano petrolio, cobalto, ferro, rame, oro e coltan, un minerale fondamentale per la costruzione dei telefonini. L’intera Africa sta diventando infatti sempre più centrale nelle questioni sullo sviluppo e la crescita demografica, economica e culturale.

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La sua dimensione totale è maggiore dell’area data dalla somma di Stati Uniti, Cina, India, Giappone e l’intera Europa. Secondo il World Population Prospects 2013 dell’Onu, più della metà della crescita della popolazione in futuro avverrà in Africa, che potrebbe raggiungere la quota di 4,2 miliardi di abitanti entro il 2100. Significa che un terzo della popolazione mondiale vivrà in Africa. Si va sviluppando inoltre un fenomeno di urbanizzazione, in linea con quello del resto del mondo, per cui si può osservare uno spostamento dei cittadini dalle campagne verso le città, al cui interno i mercati sono interamente da ampliare e appagare. Di conseguenza, anche la forza lavoro aumenterà notevolmente, diventando probabilmente circa il 25% di quella mondiale.

Kinshasa Congo
Photo by Kaysha on Unsplash

Prima dello scoppio della pandemia, il Pil dell’Africa era in crescita, dovuto in parte ad un aumento di consumo interno, degli investimenti privati e infine proprio grazie alle sue risorse minerarie. Adesso l’attenzione rivoltale è aumentata a causa del costo umano che sta subendo e per la necessità di fornire anche nei Paesi ancora in via di sviluppo le dosi necessarie di vaccino, evitando di mettere a repentaglio la vita e il futuro di miliardi di persone. Alcune delle proposte che sono state avanzate dal premier Boris Johnson e Emmanuel Macron sono di destinare le dosi in eccedenza ai Paesi privi di un piano sanitario effettivo. Tuttavia, il problema è tanto più forte quanto più le dosi rimangono insufficienti anche per questi Paesi, che confidano in un surplus.

La gravità delle condizioni sulla salute della popolazione inizia a diventare sempre più preoccupante, tanto che il tema è al centro del G7. A fine gennaio il numero complessivo di vaccinazioni effettuate nell’intera Africa era di venticinque, non milioni, non mila. Venticinque. Secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, in questi Paesi il programma non verrà completato prima del 2024; zone più svantaggiate con una disponibilità di reddito ridotta, al quale viene destinato il 32% delle dosi. Un numero irrisorio considerato che coprono l’84% della popolazione mondiale. Un ulteriore problema è dato dal differente costo delle dosi a seconda del Paese con il quale le case farmaceutiche avviano le contrattazioni. Questo a causa dei costi di trasporto aggiuntivi che sono di molto superiori rispetto alla distribuzione in Europa e negli Stati Uniti, dove hanno sede gli stessi siti di produzione. L’altro motivo è la disparità nella forza contrattuale dei diversi Paesi, dovuta in certi casi a ragioni di cooperazione nello sviluppo del vaccino, che ha permesso l’acquisto di diritti di prelazione e la possibilità di fissare anticipatamente il prezzo.

Un’emergenza sanitaria nella quale è fondamentale un supporto esterno per non lasciarsi sopraffare, un Paese martoriato, che si disgrega giorno dopo giorno a causa di scontri armati tra i diversi gruppi etnici. Paese i cui confini vengono costantemente messi in discussione e le rivendicazioni dei territori preziosi sono il sottofondo costante nella vita della popolazione. Si confida nell’aiuto delle potenze più ricche con la speranza che arrivino in tempo per salvaguardare un crollo economico, demografico e sociale che, oggi più che mai, in un mondo così globalizzato, sappiamo non essere relegato e confinato al singolo Stato, ma toccare la realtà di tutti gli attori in campo.

Ilaria Raggi

Immagine di copertina: Photo by Hu Chen on Unsplash

 


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