Tra gli anni Cinquanta e gli anni Trenta dell’Ottocento, il barone Haussmann stravolgeva Parigi su ordine del suo imperatore Napoleone III. Dobbiamo alla sua mano la creazione degli scenografici boulevards della capitale francese, i larghissimi viali che smantellavano la vecchia planimetria della città, quella degli intricati vicoli medievali narrati da Victor Hugo. L’obiettivo non era solo agevolare il traffico delle carrozze: Napoleone III aveva paura delle barricate. Perché in un vicolo largo pochi metri era facile per una folla arrabbiata tirar su una barriera, bastavano un po’ di mobili, un carro ribaltato o pavimentazione stradale divelta per bloccare il passaggio. Ridurre i vicoli e spianare quartieri per realizzare i viali rendeva estremamente complesso per eventuali rivoltosi mantenere il controllo di aree della città, facilitando la vita al potere costituito.
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Non era un caso che accadesse proprio a Parigi: la città aveva una lunga tradizione di movimenti popolari, dai tempi delle Guerre di religione di fine Seicento alla Rivoluzione del 1789, fino alle sollevazioni repubblicane del 1832, ai più celebri moti del ’48, e così via. Questo è solo un esempio di come i movimenti di massa abbiano avuto un ruolo centrale nella storia, e di come il potere abbia cercato di ridurne i magici poteri. Le folle fanno cadere i dittatori dopo averli messi al loro posto, urlano con voci unanimi, sono la forza più dirompente e più pura di un popolo.
Per decenni ci siamo convinti che la società post-industriale, troppo impegnata a vivere una vita virtuale, avesse inghiottito le manifestazioni, specialmente in un’Europa addormentata. Una convinzione rassicurante, soprattutto per chi tiene stretto il potere e non deve nemmeno preoccuparsi di tenere le piazze sgombere. Ogni classe dominante dopotutto non può che sognare la scomparsa delle masse, una loro atrofizzazione che impedisca di raggiungere il quorum anche per un referendum per il progresso civile. Il polso delle folle è saggiato di frequente in questi anni, per capire quanto ci si possa spingere in là con la repressione aperta, con quanta forza il bastone possa calare sul cranio degli ultimi. Ma la folla continua a riapparire, come la letteratura sa bene.
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In molti ricordano la folla milanese in rivolta dei Promessi sposi: è gente spinta dalla disperazione e dalla fame, qualcuno può permettersi il lusso di percepire anche dell’ingiustizia, fatto sta che le piazze si sono riempite quando ce ne è stato il bisogno di «uomini trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune», e tra loro ci sono anche osservatori compiaciuti perché «l’acqua s’andava intorbidando». Manzoni dedica a questa folla telepatica delle parole senza tempo: parla di migliaia di persone che prima dello scoppio della rivolta «andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare». La folla manzoniana non è una creatura solo irrazionale, è anche fragile perché rischia di cadere preda di chi è abile a ingannarla. Ma il potere resta nascosto.
Non sembra una coincidenza questo eterno ritorno all’Ottocento, il secolo che a volerlo guardare con occhio romantico significa popoli, nazioni, impeti, eroi, passioni. Perché chiudendo l’occhio romantico e aprendo quello realista si vedono sofferenza, fame, sfruttamento, sacrificio e dolore. La gente che scendeva in strada lo faceva prima di tutto per necessità e per ribellione contro la regolare violenza dei padroni. Ma anche i successi sono brevi illusioni. Gli ammaestratori di folle vivono il loro trionfo nel Novecento, alla guida di popoli annientati per loro stessa scelta.
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E ora? Qual è il senso della folla in piazza se tutto sembra accadere su internet? Questo abbondante ventennio di nuovo secolo sembrava il proseguimento distopico del precedente, la rabbia dei popoli confinata a rassicuranti spazi online, dove si può litigare senza danneggiare vetrine. Eppure qualcosa sembra muoversi, anche in Occidente: in piazza per il clima, contro il razzismo, per l’uguaglianza, per il 25 aprile. Nel momento del bisogno chi ha una coscienza risponde, a dimostrare che l’individualismo non ha ancora avuto la meglio su tutti.
E poi c’è la Palestina. Le manifestazioni di sostegno alla causa palestinese attraversano l’Europa intorno all’anniversario di quel fatale 7 ottobre. Centinaia di migliaia di persone stanno riscoprendo l’attivismo e la bellezza di manifestare, quasi senza bandiere di partito, con i cartelli fatti a mano, con la voglia concreta di stare insieme per qualcosa di più grande. La lotta palestinese, con la sua resistenza irriducibile, ha ridato voce a chi sembrava disilluso, riportando nelle piazze una rabbia che per troppo tempo era rimasta chiusa chissà dove.
In questo movimento collettivo, ci siamo accorti che internet non è soltanto un anestetico, ma anche un campo di battaglia. È lo spazio in cui le masse possono incontrarsi, riconoscersi, formarsi. Dove si può decidere chi è dentro e chi è fuori dalla comunità politica. Ma non possiamo permetterci di essere ingenui: la rete è uno spazio recintato. La struttura stessa di internet è concepita per indirizzare più che per liberare, e le piattaforme, di fatto, fanno lo stesso lavoro di Haussmann: disegnano percorsi obbligati, regolano i flussi, rendono rare e isolate le sacche di resistenza. Le bolle sostituiscono i quartieri, gli algoritmi deviano il rumore. Il caos è comodo, ma solo quando resta sterile e gli si fa credere di essere incapace di organizzarsi.
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Ma qualcosa sfugge sempre al suo controllo. Quando i video dei bombardamenti, dei cadaveri, delle madri che piangono i figli riescono a superare la censura e a incrinare la narrazione ufficiale, qualcosa si spezza. Qualcuno si sveglia. La Palestina oggi, come ogni altra causa ritenuta marginale ieri, rompe l’ordine del discorso per rimettere in discussione il centro e la periferia del mondo. E proprio da queste crepe la folla si riversa fuori dagli schermi e torna a occupare lo spazio pubblico per riappropriarsene, sfidando la pioggia, le cariche, l’indifferenza. Accade senza chiedere il permesso, spesso senza mediazione politica, ma con un coraggio antico. È un gesto che sembrava perduto: tornare a camminare insieme per una causa collettiva. Una memoria che torna carne. Un corpo sociale che si ricostituisce, pezzo dopo pezzo.
La piazza non è un ricordo romantico del passato, ma una necessità del presente. Finché esisterà un’ingiustizia mascherata da normalità, ci sarà qualcuno che la vorrà gridare, insieme ad altri. Le folle tornano, ogni volta che il potere le crede spente. E quando si svegliano, possono cambiare tutto.
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