Si sente spesso dire che l’Europa contribuisce in maniera limitata alle emissioni climalteranti, ed è vero se guardiamo ai dati attuali: oggi l’Europa rappresenta solo il 7% delle emissioni globali. Tuttavia, limitarsi al presente non offre una visione completa. È necessario considerare le emissioni storiche, perché i gas serra rimangono in atmosfera per secoli, talvolta millenni. Con questa prospettiva, il quadro cambia drasticamente: l’Europa (UE27 e Regno Unito) è seconda solo agli Stati Uniti per emissioni cumulative. Ragionare unicamente sulle emissioni attuali è, quindi, profondamente fuorviante.
Le responsabilità storiche sono un elemento centrale delle negoziazioni ONU sul clima (COP). Da esse dipende una questione fondamentale: come redistribuire i costi delle politiche per contrastare i cambiamenti climatici. I Paesi ricchi, che hanno potuto svilupparsi nei due secoli passati ignorando gli impatti ambientali, devono farsi carico della maggior parte dei costi, permettendo ai Paesi in via di sviluppo di crescere in modo più sostenibile. Tuttavia, questi impegni non sono stati mantenuti: i Paesi ricchi hanno sistematicamente mancato il target annuale di 100 miliardi di dollari destinati ad aiutare i Paesi più vulnerabili e in via di sviluppo.
Un fattore che complica ulteriormente la questione della finanza climatica è la Cina. Pur non essendo formalmente classificata tra i Paesi sviluppati nell’ambito della Convenzione ONU sul clima, il suo contributo alle emissioni globali è enorme: oggi è il primo emettitore mondiale. Sebbene abbia iniziato la sua parabola di sviluppo molto più tardi rispetto ai Paesi occidentali, in pochi decenni ha bruciato quantità enormi di combustibili fossili, superando di recente – secondo l’analisi di Carbon Brief pubblicata pochi giorni fa – l’UE27 per emissioni cumulative. Se il trend attuale dovesse continuare, potrebbe raggiungere anche gli Stati Uniti nei prossimi decenni. Al tempo stesso, la Cina investe massicciamente in energie rinnovabili: da sola, installa più capacità eolica e fotovoltaica di tutti gli altri Paesi del mondo messi insieme. Inoltre, rivendica di aver già destinato 24,5 miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo dal 2016.
Non sorprende, quindi, che nella COP29, conclusasi qualche giorno fa a Baku, il tema dominante sia stato proprio la finanza climatica. Era previsto che quest’anno si sostituisse il vecchio target finanziario di 100 miliardi annui con cifre e ambizioni più adeguate allo stato di salute del pianeta. L’accordo raggiunto prevede di mobilitare almeno 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035, attraverso risorse pubbliche e private, con un ruolo guida per i Paesi sviluppati. Un linguaggio pensato anche per incoraggiare il contributo di Paesi come la Cina e di altre economie con capacità significative, pur non rientrando formalmente tra i Paesi sviluppati.
L’accordo ha inoltre stabilito l’obiettivo di mobilitare 1.300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035, rinviando però ai prossimi mesi i dettagli su come raggiungere questa cifra. Da un lato, è positivo che sia stata esplicitata una somma così significativa, corrispondente al fabbisogno reale dei Paesi più poveri secondo l’ONU e gli economisti. Sebbene appaia una cifra enorme, rappresenta in realtà solo l’1% del PIL mondiale. Dall’altro lato, però, restano numerose incertezze sulle modalità per concretizzare questo impegno, rese ancora più gravi dall’imminente ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, Paese leader per emissioni cumulative. Non stupisce, dunque, la forte delusione espressa dai Paesi in via di sviluppo rispetto all’accordo sui 300 miliardi annui, considerati largamente insufficienti per affrontare la crisi climatica.
Tornando al tema dell’equità, emergono altri due aspetti fondamentali. Il primo riguarda le emissioni pro capite: i Paesi occidentali, insieme ai membri OPEC del Golfo, continuano a distinguersi come i principali emettitori. I nostri stili di vita risultano di gran lunga i meno sostenibili e pongono una questione cruciale: è evidente che sarebbe irrealistico immaginare un Pianeta in cui tutti gli abitanti adottino il nostro stile di vita, così come è oggi. Semplicemente, non è materialmente possibile.
Il secondo aspetto approfondisce ulteriormente il tema, spostando l’attenzione dal livello nazionale a quello individuale, con un focus sulla ricchezza. Uno studio che ha analizzato le emissioni pro capite tra il 1990 e il 2019 ha evidenziato risultati eloquenti. Nel 2019, il 50% più povero della popolazione mondiale era responsabile del 12% delle emissioni globali, mentre il 10% più ricco ne produceva il 48%, con il Top 1% da solo responsabile del 17%. Dal 1990, il 50% più povero ha contribuito solo al 16% della crescita totale delle emissioni, mentre l’1% più ricco è stato responsabile del 23%. Mentre le emissioni pro capite dell’1% più ricco sono aumentate, quelle dei gruppi a basso e medio reddito nei Paesi ricchi sono diminuite. Questi dati spiegano perché, durante la COP29 di Baku, si sia discusso della possibilità di introdurre una tassa sui super-ricchi per finanziare le misure climatiche. Lo stesso studio rivela inoltre che, a differenza del 1990, oggi il 63% delle disuguaglianze globali nelle emissioni individuali è dovuto al divario tra grandi e piccoli emettitori all’interno dei singoli Paesi, piuttosto che tra Paesi diversi.
Tradotto per noi: anche in Italia esiste un enorme problema di equità. Non si può chiedere a chi ha meno di sopportare un peso sproporzionato nelle politiche climatiche. La lotta ai cambiamenti climatici deve andare di pari passo con la giustizia sociale, altrimenti non andremo da nessuna parte. E questo deve avvenire a tutti i livelli: da quello locale, fino a quello globale.
di Michele Bellini
Autore di “Salviamo l’Europa. Otto parole per riscrivere il futuro“
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