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Quattro motivi per cui la crisi ecologica è una faccenda filosofica

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L’aspetto di ciò che s’intende per crisi, oggi, ha assunto una nuova forma. All’idea di una decadenza progressiva e inarrestabile dei costumi, della cultura, della politica, un’idea che non ha smesso di far pensare tutto il ‘900, è venuta ad aggiungersi la ben più inquietante ipotesi che il mondo, nella sua materialità, possa finire e che l’umanità, come genere, possa estinguersi. La crisi ecologica è la cifra di questa nuova emergenza, un’emergenza che vede come suo centro l’alterazione, provocata da interventi umani di lunga durata, dell’equilibrio ambientale, dei ritmi, delle fasi, degli ingranaggi che hanno regolato, sin dalla sua origine, la stabilità dinamica del pianeta Terra. Si tratta solo di un problema di tipo scientifico che concerne chi si occupa di scienze naturali, climatologia, geologia? No. Ecco quattro motivi perché non è così.

Motivo n.1: Crisi e decisione

Come ha mostrato lo storico tedesco Reinhard Koselleck, il concetto di “crisi” è un concetto eminentemente storico, che indica cioè come una certa epoca pensa il proprio tempo, e, conseguentemente, come ha tentato, escogitando strategie pratiche e speculative, di uscire o permanere in esso. Nel suo etimo di derivazione greca, difatti, la parola crisi significa giudicare, dividere, discernere, ed affonda nel significato all’ambito della semantica medica. Criticare è l’azione del dottore che identifica la patologia per elaborare una cura. Per analogia, lo stesso vale per la storia. Quando una certa epoca è “in crisi”, significa che sta in qualche modo cercando di liberarsi da se stessa.

La crisi, in termini filosofici, produce la critica, ossia quell’attività di discernimento utile a prendere una decisione. Quando si parla di crisi ecologica, quindi, non si parla solo di catastrofe ambientale, di disastro climatico, ma, più a fondo, del costituente storico che abbiamo identificato come peculiare alla nostra epoca, del nostro tempo, che per l’appunto rappresenta un tempo di passaggio, in termini tecnici, un aevum, verso un futuro non ancora prevedibile ma che desta timore. La domanda associata a questo primo senso filosofico del termine “crisi ecologica” è: che decisione dobbiamo prendere in questo tempo di crisi?

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Motivo n.2: Storia

Se è vero quanto detto nel primo punto, ne deriva che il senso stesso della storia è chiamato in causa dalla concettualità attinente alla crisi ecologica, ed è proprio al senso della storia che l’idea di una crisi ecologica ci domanda di ripensare. Perché? La catastrofe ambientale si manifesta nel discorso ecologico, innegabilmente, come una variazione tematica sul concetto dell’Apocalisse. Il mondo deve finire, l’umanità deve finire, estinguersi, spegnersi –solo che, nel caso dell’apocalisse ambientale, non c’è redenzione– ciò significa che tale discorso presuppone un’idea di storia, anch’essa tipicamente occidentale; un’idea di storia che porta in sé non solo il motore del suo avanzamento, ma anche l’abisso della sua fine. La fine, l’escathon, è quel momento in cui tutta la storia si raccoglie per rivelare la verità (cristianamente) di Dio, accogliendo nella presenza dell’eternità il corso del tempo.

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Non è la catastrofe climatica una postilla, forse l’ultima, a questo discorso che nasce come religioso, ma che poi, secolarizzandosi, diviene il fondamento delle grandi filosofie della storia del ‘900, da Hegel a Kojève a Spengler? Allo stesso tempo, però, questa crisi rappresenta l’opportunità per ripensare la storia e metterla in discussione e questo perché l’idea stessa di fine del mondo, un’idea che – è inevitabile – ci relega alla passività: se il mondo deve finire, che finisca. Noi possiamo ben incrociare le braccia e aspettare.

La domanda che si può associare al secondo senso filosofico del termine «crisi ecologica» è: come dobbiamo pensare la storia per delineare al suo interno un orizzonte di operatività, un possibile moto decisionale che ci svincoli dall’idea di una fine inevitabile?

Motivo n.3: Natura

Ancora più profondamente, quindi, la “crisi ecologica” non è solo la crisi materiale del mondo che abitiamo, ma la crisi di un modo particolare di pensare il mondo e, più nel dettaglio, di pensare la natura. La crisi ecologica è, in altri termini, una crisi di senso.

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Se fino ad oggi è prevalsa l’idea di una natura infinitamente utilizzabile, passiva, inerte, riflesso esatto di quella distinzione che Cartesio, alle soglie della modernità, tracciava con geniale e fatale intelligenza, la distinzione tra anima e corpo – se la natura fino ad oggi è stato questo “cane morto”, per dirla alla Marx, i rivolgimenti climatici che vediamo accadere paiono doverci indurre a cambiare prospettiva–. Il ghiacciaio che si scioglie non è un evento confinabile nei territori antartici, ma un momento di un circolo relazionale, ecologico, che inevitabilmente coinvolgerà anche noi.

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Che natura abbiamo davanti? Non certo quella che pensavamo di poter sfruttare come fatto finora. Ritornano in auge filosofie che si rifiutano di fare della natura un pezzo di terra scanalato. Il chimico eretico Lovelock presentò, a tal proposito, un’immagine indimenticabile, quella di Gaia, ossia di una natura, di un mondo che è un individuo, che si autoalimenta, che vive. Gli antichi parlavano dell’anima del mondo. La terza domanda sarà allora: come pensare in maniera nuova la natura?

Motivo n.4: Etica

La quarta questione deriva per necessità dalla precedente. Se dobbiamo e vogliamo considerare diversamente la natura, riconoscendo in essa qualcosa di più di quel regno del quale l’uomo, secondo Cartesio, doveva diventare signore e dominatore, allora sarà vincolante includere anche la natura all’interno della sfera del diritto. In fondo, Hegel vedeva giusto quando diceva che la progressione dell’umanità (che non necessariamente coincide con il suo progresso) consiste in una graduale presa di coscienza di sé stessa. Lo schiavo non si pensa, ha scritto Hegel; non è elitismo, ma un’affermazione tanto giusta quanto ovvia, poiché lo schiavo, così com’era considerato, ad esempio, nell’Antica Grecia (mero strumento, smerciabile come il martello o la zattera) non poteva considerarsi umano, non poteva considerarsi parte di questo genere; solo in virtù di un avanzamento nella coscienza che l’uomo ha di sé stesso che lo schiavo è divenuto umano e , allora, perché non includere in questa sfera anche la natura?

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Lo si fa già –non abbastanza e solo in parte con gli animali– perché non farlo anche con le montagne, i laghi, le foreste? Non sono anch’essi – oggi, la crisi ecologica, pare suggerircelo – soggetti di diritto? Non è un crimine abusarne, come si sta facendo? Non vanno anch’essi difesi come si difende, giuridicamente, penalmente, il criminale? Ecco la quarta domanda, che forse è la più importante: come dobbiamo agire, che etica dobbiamo elaborare affinché la Terra, che può finire, non debba farlo?

 


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.