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lotta contro patriarcato

Tra cronaca e cultura, la lotta delle donne contro il patriarcato

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5 minuti di lettura

Stava per arrivare il primo freddo, le foglie cadevano e in qualche città probabilmente iniziavano già a spuntare le luminarie di Natale. Era novembre, più precisamente lunedì 18 novembre, quando il ministro dell’Istruzione (e del merito) Giuseppe Valditara ha decretato la morte del patriarcato. «Non c’è più, in Italia» disse nel videomessaggio per la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, ventiduenne uccisa dal suo ex, Filippo Turetta, e dal retaggio patriarcale che ancora oggi porta gli uomini a sentirsi in diritto di controllare, possedere, uccidere le donne. Ma dov’è, questo patriarcato? Come riconoscerlo, come abbatterlo? Dagli anni Settanta di Carla Lonzi e Gigliola Pierobon ai fiumi di cinquecentomila persone in piazza per Giulia Cecchettin, la lotta al patriarcato tra letteratura, cultura e cronaca.

Roma, primavera 1970. Sui muri della città compare il manifesto della rivista Rivolta Femminile, elaborato da un testo di Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti, un vademecum per il nuovo femminismo italiano che affermava con orgoglio la diversità della donna e le sue prerogative. «Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione. Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza» scrivevano. Frasi forti, concetti taglienti, ambizioni rivoluzionarie: «Siamo contro al matrimonio», in quanto origine della sottomissione femminile, il lavoro domestico non retribuito visto come «la prestazione che permette al capitalismo, privato e di Stato, di sussistere», la guerra come «espressione del comportamento di virilità maschile». Affidano ai muri una sorta di Costituzione, che ha come principio fondamentale non l’uguaglianza ma la liberazione della donna dalla sua condizione di oppressione.

Quel manifesto, un grido, una promessa di lotta, sarebbe stato uno spartiacque e avrebbe dato il via all’ondata del femminismo più battagliero, il «primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società» che avrebbe riempito strade e piazze, collezionato conquiste, dai consultori alla legge per il divorzio e l’aborto. Nel corso degli anni le femministe, con il loro sguardo deciso e gli ideali fermi, nonostante spesso fossero poco più che ragazzine, non hanno paura di mettere in discussione tutto: prendono concetti, paradigmi, teorie e pensatori, istituzioni e dogmi, e li squarciano. Mettono in discussione i fondamenti della società, i principi con cui sono cresciute, si battono per superare un concetto di famiglia che si regge sulla sottomissione femminile e invocano la libertà sessuale.

Quel femminismo è arrivato nelle zone d’ombra, non ancora battute, e ha disseppellito una materia oscura dell’esperienza, che la politica ha sempre considerato altro da sé: corpo, sessualità, sogni e sentimenti. Ciò che non trovava spazio nella polis, il femminismo l’ha abbracciato, perché, ricorda Rossana Rossanda – giornalista, deputata e co-fondatrice del Manifesto – «il movimento delle donne si era inoltrato in quelle acque profonde e insondate della persona», che la politica si era lasciata dietro.

Cos’è rimasto, oggi, di quell’epoca? Cos’è rimasto del vento rivoluzionario che faceva sentire quelle giovani padrone del mondo, del futuro, artefici del loro tempo e di tutti quelli che sarebbero venuti dopo? Delle leggi, innanzitutto, come la sentenza del 1968 che elimina l’adulterio femminile dalla lista dei reati, la riforma del diritto di famiglia del 1975 che riconosce la condizione di parità della donna, la legge 194 del 1978, che ha riconosciuto il diritto all’aborto sicuro. Leggi per cui ancora oggi le femministe si battono, perché una conquista non è mai per sempre se non c’è nessuno che vigila sul suo rispetto e il rischio è quello che venga prima data per scontata, poi discussa e infine eliminata. Leggi, dietro alle quali ci sono dei nomi, delle storie. Come quella della ventitreenne padovana Gigliola Pierobon, figlia di contadini, che all’inizio del giugno 1973 era accusata di aver abortito clandestinamente nel 1967, a soli 17 anni. Quel giorno, Gigliola si era ritrovata su un tavolo da cucina, a svenire per il dolore quando la mammana – così chiamavano le donne dell’epoca che eseguivano le operazioni clandestine – le aveva provocato un aborto con una sonda di ferro, senza sedativi né antibiotici, causandole anche un’infezione. Il suo caso, la lettera che ricevette dal tribunale, le accuse, divennero una battaglia comune grazie alla sua militanza in un collettivo femminista. Il personale, d’altronde, è politico.

Qualche anno prima di Gigliola Pierobon, un’altra ragazza aveva abortito su un tavolo da cucina, a Rouen. Il suo nome era Annie Ernaux: nel 2022 avrebbe vinto il Premio Nobel per la letteratura, e nel suo libro L’evento raccontò la storia della sua interruzione volontaria di gravidanza, nel periodo in cui era sì vietata, ma non per questo non praticata. «Era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male, o se era un male perché era proibito» scrive la scrittrice francese. «Si giudicava in base alla legge, non si giudicava la legge».

Oggi l’aborto non è più un reato, ma non si può di certo dire che sia una pratica sanitaria di facile accesso, visto l’alto tasso di obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche. Poi ci sono i pro vita, i volontari che consegnano feti di plastica fuori dalle cliniche, i medici che fanno ascoltare il battito cardiaco per scoraggiare l’intervento. In alcune zone degli Stati Uniti, così come in alcuni Paesi dell’Europa piegata dall’estrema destra, l’aborto è stato vietato e, anche per questo, le donne si sono prese piazze e strade, tornando a manifestare per il loro diritto di autodeterminazione sul loro corpo. «Ecco la società dei preti e dei padroni, violentano le donne e difendono gli embrioni», «Da oggi in poi obiezione zero, dal mio corpo resti fuori il clero» hanno gridato le femministe a Roma, Torino, Modena, Milano e Padova, per dire no a ogni tipo di arretramento sulla legge 194, dettato dalle decisioni del Governo Meloni.

Strade e piazze sono state attraversate dalla marea fucsia anche per il femminicidio di Giulia Cecchettin. Un caso che ha scosso il Paese, che ha portato in primo piano – anche grazie alla sorella della vittima, Elena – la riflessione sul patriarcato nel discorso pubblico. «Il femminicida non è un mostro, è il vostro bravo ragazzo, è il figlio sano del patriarcato» aveva detto Elena Cecchetin e, con lei, migliaia di femministe che avevano chiesto di fare rumore, per Giulia e per tutte le altre, perché i minuti di silenzio servono a poco: bisogna dare voce alla violenza e all’oppressione. E, se serve, bruciare tutto.

Dopo un anno, caratterizzato da un boom di richieste di aiuto ai centri antiviolenza, manifestazioni, richieste da parte del mondo della scuola e dei pedagogisti di portare nelle classi l’educazione sessuale, al rispetto e al consenso, il ministro Valditara ha decretato la fine del patriarcato. Che, tuttavia, è vivo e vegeto, ed è ancora oggi il principio gerarchico ordinatore dei rapporti; forse non andava nominato, cosicché potesse continuare ad agire in modo mimetico. Inutile nasconderlo: tutte le forme di dominio che pervadono la nostra società sono annidate al suo interno e possono contare sulle differenze salariali, sui soffitti di cristallo che ancora troppo spesso non si riesce ad abbattere, a distruggere in mille pezzi. Il discorso su cui la società patriarcale costruisce le sue fondamenta è tutto legato al potere.

Lo diceva già Susan Sontag nel 1972 nel testo Il sacro mondo delle donne, confluito nel 2023 nel libro Sulle donne: «Ogni serio progetto di liberazione delle donne deve partire dalla premessa che la liberazione non concerne semplicemente la parità. Concerne il potere. Le donne non possono emanciparsi senza ridurre il potere degli uomini». Senza, appunto, provare a smantellare il patriarcato.


Illustrazione di Camilla Volpe

Questo articolo fa parte della newsletter n. 47 – febbraio 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

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Maria Ducoli

21 anni, bresciana, studentessa di Lingue, civiltà e scienze del linguaggio a Venezia. Dice di voler diventare una giornalista o un'insegnante. O entrambe le cose.

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