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Dall’Amazzonia alla Siberia, i polmoni della Terra in fiamme

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17 minuti di lettura

È il 15 agosto 2019, sul portale internazionale di Greenpeace viene pubblicata una nuova gallery fotografica: Ti chiedi che aspetto ha un’area di foresta che brucia più grande del Belgio?. Il titolo è forte, provocatorio, ma molto efficace. Qualche mese fa, prima degli scioperi sul clima, prima di Greta Thunberg e del suo famoso discorso alle Nazioni Unite, prima dei comitati mondiali di Fridays for Future, un titolo del genere ci avrebbe fatto sorridere o peggio, annoiare. Ma oggi è diverso: non c’è angolo del paese in cui non si parli di ambiente, di clima e di tutto ciò che ne comporta. La società civile inizia a muoversi e ad interessarsi ai temi ambientali, finalmente percepiti come una priorità

Ieri un gruppo di attivisti di Friday For Future Lombardia si è dato appuntamento sotto l’ambasciata brasiliana per protestare contro il governo Bolsonaro, accusato di essere responsabile dei gravi incendi che stanno devastando l’Amazzonia. E non è la prima volta che il movimento (ma potremmo estendere anche a ONG, associazioni e organizzazioni internazionali) manifesta la propria insofferenza verso le scelte “sbagliate” di una classe politica insofferente e disinteressata. Era successo anche poche settimane fa in riferimento alla Russia di Putin, devastata dagli incendi che ancora oggi, mentre scriviamo, divampano in alcune aree siberiane. 

Sono loro, le fiamme, le grandi protagoniste di questa estate, prima in Siberia e ora in Sud America. E sono, nella loro drammaticità, due facce della stessa medaglia.

Milano, 23 agosto 2019. I giovani attivisti di Fridays for Future Milano protestano contro le politiche del governo Bolsonaro. Sono sotto il consolato brasiliano e il coro intonato a gran voce è “No es Fuego, es capitalismo”.

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I roghi in Amazzonia 

In questi giorni l’Amazzonia sta bruciando e, con lei, parte di quel polmone verde che fornisce il 20% di ossigeno alla Terra. Sembra che la gravità del fatto, almeno per questa volta, abbia avuto una risonanza appropriata, come confermato dai reportage pubblicati sulle principali testate internazionali. Ma quello che oggi appare un fatto eccezionale, è in realtà un problema che si ripete di anno in anno e, considerate le dimensioni del fenomeno, è impossibile rimanere in silenzio. Ne sono una dimostrazione i 10 milioni di tweet postati in una settimana e l’hashtag #PrayForAmazonas che, per qualche giorno, è stato tra i più discussi su Twitter in tutto il mondo. E non è difficile comprenderne il motivo.
Da gennaio a oggi, secondo i dati pubblicati dal Programma Incendi dell’Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali (
INPE), il numero di focolai in Brasile ha superato le 70 mila unità, circa l’83% in più rispetto allo scorso anno e la regione della foresta amazzonica è quella che sta pagando il prezzo più alto in termini di ettari bruciati.

Una mappa pubblicata da Business Insider Spagna mostra gli incendi attivi dal 13 agosto 2019.

A inizio agosto, il governatore dell’Amazzonia, Wilson Lima, ha dichiarato lo stato di emergenza «a causa dell’impatto negativo della deforestazione illegale e dei roghi non autorizzati». Non è dunque il cambiamento climatico la causa diretta di questi incendi.

Come affermato da Alberto Setzer, ricercatore dell’INPE:

«In questo periodo dell’anno non esiste un focolaio naturale. Tutti questi incendi trovano origine nell’attività umana, sia accidentale che intenzionale. Non è colpa del tempo, che crea solo le condizioni, ma di qualcuno che dà fuoco».

A confermare questa posizione anche Douglas Morton, capo laboratorio di Scienze Biosferiche della NASA, che trova nelle conseguenze della deforestazione, e quindi nei tronchi degli alberi esposti al sole dopo l’abbattimento, la causa principale di questi incendi.

L’INPE, l’ente governativo brasiliano che raccoglie dati sulla deforestazione e gli incendi nell’Amazzonia, è stato oggetto di recenti critiche da parte del Presidente Jair Bolsonaro che ha accusato l’istituto di operare al servizio di alcune organizzazioni non governative. Le informazioni recentemente pubblicate dall’istituto di ricerca, infatti, hanno scosso l’opinione pubblica mostrando come la deforestazione amazzonica sia cresciuta dell’88% a giugno e del 278% a luglio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, il governo brasiliano nega questi dati, confermati anche dalle immagini satellitari della NASA, promettendo di fornire al più presto stime più accurate.

La situazione è critica; e non solo sul piano ambientale. La foresta amazzonica è ancora oggi casa di tribù indigene che, con la deforestazione, poco a poco stanno perdendo tutto ciò che permette loro di sopravvivere. Anche per questi “cittadini un po’ isolati”, in questi giorni, milioni di cittadini brasiliani stanno manifestando per le strade delle loro città in difesa dell’Amazzonia.

San Paolo, 23 agosto 2019. In moltissimi sono scesi in piazza per protestare contro i roghi in Amazzonia. Si tratta di una manifestazione pacifica e non ha un solo colore politico.

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Ciò che è forse interessante notare è che, in un momento di forte polarizzazione ideologica e politica, l’88% dei cittadini brasiliani, inclusi gli elettori di Bolsonaro, condivide una preoccupazione per le sorti della regione amazzonica (ricerca IBOPE). Alle loro preoccupazioni si aggiungono le critiche di esponenti politici, economisti e imprenditori che ora, dopo aver constatato l’effetto delle scelte di liberalizzazione volute da Bolsonaro in Amazzonia, minacciano di far saltare l’accordo commerciale tra Unione Europea e Mercosur che prevede l’importazione di alcuni prodotti agricoli brasiliani senza dazi. Forse tutto questo non basterà a far cambiare idea al Presidente del Brasile ma, si sa, oggi in politica un sondaggio può valere più di un’idea e, magari, anche più di qualche interesse consolidato.

San Paolo, 23 agosto 2019. Una foto delle proteste in piazza.

La Siberia, tra fiamme e inondazioni

Se oggi l’opinione pubblica internazionale è concentrata sugli incendi in Brasile qualche settimana fa era invece la Russia la protagonista di devastazioni dovute a incendi dolosi e alluvioni senza precedenti.
Ormai da diversi mesi la Russia è in fiamme. Enormi incendi stanno devastando milioni di ettari di foreste in Siberia, producendo tonnellate di CO2 da record. Secondo alcuni dati nel solo mese di luglio gli incendi hanno prodotto una nuvola di fumo di oltre 5 milioni di chilometri quadrati (per chiarire, si tratta di una superficie più ampia di quella dell’Unione Europea), che ha avvolto diverse città siberiane e si è spinta fino agli Stati Uniti, superando l’Oceano Pacifico. 

L’ondata di incendi è iniziata a luglio 2019 in aree di difficile accesso nel nord di Krasnoyarsk Krai, nella Repubblica di Sakha e nel Zabaykalsky Krai, tutte all’interno della provincia siberiana della Russia. In diverse di queste aree si è chiesto – e ottenuto – lo stato di emergenza, ma la situazione continua ad essere grave e numerose organizzazioni internazionali denunciano il governo russo di non aver agito in modo efficace davanti ai cambiamenti climatici e di aver minimizzato il problema. 

Nella cartina, prodotta dalla BBC, sono segnalate in rosso le aree colpite dagli incendi. In basso a destra, al confine con la Mongolia, si trova la regione di Irkutsk, drammaticamente famosa per le violente alluvioni degli ultimi mesi.

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La situazione invece è, senza troppi giri di parole, drammatica: i roghi sono moltissimi e la maggiorparte non vengono domati, un po’ perché si tratta di aree difficili da raggiungere anche con mezzi speciali, un po’ perché la legislazione russa non obbliga ad un intervento diretto per quelle aree del paese per cui «non vi è alcuna minaccia per gli insediamenti umani e le strutture economiche e il costo previsto per estinguerli supera il danno previsto che potranno causare» (gli incendi sono comunque monitorati a distanza, la NASA li segnala qui). 

La decisione di non agire su tutti gli incendi ha devastato le foreste siberiane con numeri senza precedenti: Greenpeace Russia ha stimato che nell’ultimo anno sono 13 milioni gli ettari bruciati nel Paese e il World Metereological Organization afferma che siano state rilasciate almeno 50 milioni di tonnellate di CO2. Sempre secondo Greenpeace Russia, nei territori ora in fiamme le reti per la prevenzione degli incendi sono sottofinanziate e ricevono solo il 10% delle risorse necessarie

Ma il lato più drammatico del cambiamento climatico per la popolazione autoctona è forse quello legato alle violente alluvioni degli ultimi mesi.

«Ricordo ancora gli occhi lucidi di Bogdan, un militare russo con cui ho condiviso la cabina del treno sulla tratta Ekaterinburg-Irkutsk, quando mi mostrava le foto dei villaggi nel distretto di Nižneudinsk, nella Siberia sudorientale, a cui ha prestato servizio nei giorni di piena. Mentre guardavo le sue foto mi sembrava impossibile che tutto ciò fosse possibile e, soprattutto, così vicino a dove mi trovavo. Ma era solo questione di tempo prima che mi convincessi della reale drammaticità di quella situazione. Infatti, qualche ora dopo, poco fuori la stazione di Zima, le foto dei villaggi sommersi mostrate da Bogdan erano la copia fedele di ciò che stavamo guardando, in silenzio, fuori dal finestrino».

Una foto, scattata con il telefono, di una casa sepolta dall’acqua.
Uno dei villaggi sommersi dall’acqua nella regione di Irkutsk. La foto è stata diffusa dal ministero russo per le emergenze.

Nella regione di Irkutsk (circa 2.4 milioni di abitanti) hanno perso la vita almeno 18 persone durante le inondazioni. L’aumento del livello delle acque ha costretto diverse migliaia di persone ad abbandonare la propria casa e circa 30.000 abitanti hanno vissuto senza elettricità e acqua potabile per settimane. «The scale of the damage is horrendous», racconta il Siberian Times, riportando i numeri della tragedia (4000 case danneggiate, 10000 sfollati, 3000 bambini senza più dimora, e potremmo andare avanti). 

«Stiamo bruciando e annegando allo stesso tempo» intitola il greenreport.it e, anche in questo caso, la responsabilità è quasi tutta nostra per quanto riguarda gli incendi («90% of wildfires in Russia are the result of human activities» commenta Greenpeace).

La siccità e l’ondata di caldo che hanno colpito l’Artico – scrivono su greenreport.it – hanno certamente favorito lo scoppiare di centinaia di incendi, ma secondo uno studio del Wwf Russia “Gli incendi causati dall’uomo sono tra le principali minacce per i territori forestali intatti (IFL) dove vivono rare specie di animali e piante. I dati della ricerca confermano dove il disboscamento e la costruzione di strade e altre infrastrutture vicine alle foreste vergini, gli incendi si verificano più frequentemente negli IFL. Ogni anno la Russia perde più di 1,6 milioni di ettari di foreste vergini a causa del  disboscamento, della costruzione di strade e delle miniere e degli incendi antropogenici e il ritmo sta crescendo rapidamente. Gli incendi causati dall’uomo sono uno dei motivi principali della perdita di IFL in Russia (60% dell’area di perdita IFL), mentre il disboscamento e le attività minerarie sono rispettivamente la causa del 23% e del 17% della perdita dell’area IFL”.

Le nuove generazioni in campo per il clima

Brasile e Russia, Amazzonia e Siberia, due polmoni della nostra Terra che stanno andando a fuoco per colpa dell’attività umana.
Ma oggi qualcosa è diverso. Le mobilitazioni del Skolstrejk för klimatet unite alla maggiore consapevolezza sui pericoli del cambiamento climatico, stanno aprendo la strada ad un nuovo tipo di protesta che – finalmente – riesce a coinvolgere le nuove generazioni attorno a un tema fondamentale per il nostro futuro.
E mentre l’opinione pubblica internazionale guarda con preoccupazione i roghi che stanno distruggendo ettari di foreste in Amazzonia, e le politiche di Bolsonaro animano il dibattito del G7 attualmente in corso in Francia, tornano a riempirsi le piazze di tutto il mondo, per raggiungere un obiettivo comune.
E sono animate da giovanissimi attivisti che con cartelli, cori e flash mob ricordano ai “grandi” che esiste una sola lotta che dev’essere vinta: quella per la salvezza del nostro pianeta.

L’articolo è stato scritto a quattro mani da Pietro Regazzoni e Agnese Zappalà, entrambi articolisti nella redazione ‘Politica e Attualità’ di Frammenti Rivista. Pietro ha visitato il Brasile nell’agosto dello scorso anno mentre quest’estate ha attraversato la Siberia in treno nel periodo delle alluvioni e degli incendi, parlando con persone che hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze del cambiamento climatico.
Tutte le foto e i video presenti nell’articolo, se non specificato diversamente, appartengono agli autori o a fonti a loro vicine. 

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