fbpx
Placeholder Photo

Deficit Democratico dell’UE:
di cosa si tratta?

/
12 minuti di lettura

Spesso si sente parlare del deficit democratico, soprattutto in riferimento all’Unione Europea. Ma cosa significa questa nozione? Da chi è stata coniata e da quale background politico-filosofico proviene?

schrank-the-economist

All’interno del dibattito politico contemporaneo un tema sembra emergere con una certa ripetitività e costanza: la democrazia è in crisi. Come ha evidenziato il professor Yves Sintomer, c’è un paradosso nella nostra società, per cui mai nella storia abbiamo avuto tanti paesi democratici e la democrazia sembra non avere più avversari globali, eppure nel cuore delle vecchie democrazie liberali si è diffuso un sentimento di sconforto e crisi profonda.

Ad essere protagonista di questo dibattito si trova indubbiamente l’Europa che vive una fase di transizione storica peculiare (crisi del sistema di welfare state e crisi economica), nella quale allo sconforto rispetto al funzionamento delle democrazie nazionali si allinea il dibattito sull’efficienza delle istituzioni transnazionali. A tornare ripetutamente nel lessico tanto accademico quanto mediatico è il problema del deficit democratico dell’Unione Europea.

Tuttavia, come giustamente sostenuto dal politologo Gianfranco Pasquino, l’espressione deficit democratico applicata all’UE è tanto convincente quanto poco chiara e si presta per questo motivo a tante lodi quanto a molte critiche.  In generale, essa indica la mancanza di legittimità e l’inefficienza delle principali istituzioni della UE, le quali non rifletterebbero adeguatamente le preferenze dell’elettorato degli Stati-membri e non sarebbero in grado di consentire al popolo, ai cittadini europei, di esercitare sufficiente potere. Qualsiasi potere esista nell’Unione rimarrebbe invece in mano, da un lato, ai governi nazionali e, dall’altro, ai tecnocrati europei. Di conseguenza, le procedure decisionali utilizzate darebbero grande spazio agli interessi e alle preferenze dei governi degli Stati-membri e degli eurocrati, ma non a quelli dei loro cittadini. Già da queste prime considerazioni, tuttavia, emergono alcune premesse fondamentali e assunti da parte di coloro che le sostengono. Se cosa sia un deficit è cosa abbastanza chiara, tuttavia, poco chiaro risulta essere dove si trovi questo deficit. Se le istituzioni europee non rispondono adeguatamente all’elettorato degli stati membri perché manca la possibilità al demos di esprimersi, allora il deficit risiede nella cosiddetta input-legitimation. D’altra parte, se il problema risiede nel fatto che le istituzioni agiscano per sé e non per il “popolo” allora il deficit risiede nell’outputlegitimation.

Possiamo dunque avere più risposte a seconda di come definiamo il concetto di democrazia. Riprendendo la celebre definizione di Abramo Lincoln: «Democracy is the government of the people, by the people, for the people». Alla luce di ciò i politologi hanno evidenziato diversi deficit: una mancanza nel funzionamento del principio di maggioranza parlamentare, una mancanza di un pre-demos europeo, una mancanza di partecipazione diretta e infine la mancanza di un senso di cittadinanza europeo.

Se dunque è chiaro che le diverse posizioni esposte sul possibile deficit democratico dell’Unione Europea differiscono in relazione alla concezione di democrazia che ad esse sottende, tuttavia, sembrerebbe che, benché diverse tra loro, queste riflessioni siano accomunate da un postulato comune. In particolare, sembra che le categorie attraverso le quali si deve studiare il funzionamento o meno della democrazia europea siano le medesime che vengono usate per descrivere il modello nazionale di democrazia. Ed ecco che allora si arriva ad un punto decisivo nella nostra riflessione. Attraverso quali categorie può essere studiata la democrazia all’interno di istituzioni sovranazionali? Solo rispondendo infatti a questa domanda è possibile dare una risposta esaustiva ed efficace al problema di un eventuale deficit democratico dell’unione europea. Ed è proprio su questo punto che è necessario fare chiarezza se vogliamo parlare con una certa cognizione di causa del deficit democratico dell’UE.

La domanda è dunque eminentemente e squisitamente filosofica e riguarda la metodologia con la quale affrontiamo il problema. Da questo punto di vista due sono gli approcci principali a cui dedicare attenzione: da un lato, quello gradualista, che estrapola appunto il modello dello stato-nazione e lo applica all’EU, di cui il pensatore di riferimento per eccellenza è il filosofo Jürgen Habermas; dall’altro, la prospettiva trasformazionalista, secondo la quale, il fatto che l’UE non sia uno stato-nazione richiede un ripensamento dei criteri e del modello di democrazia, o meglio di demoi-crazia, e che si applicano ai più demoi europei.

Quanto al primo approccio, esso emerge con assoluta evidenza in due celebri pamphlet pubblicati rispettivamente nel 2001 e nel 2003 da Habermas dai titoli eloquenti: Why Europe a Constitution e February 15, or What Binds Europeans Together: A Plea for a Common Foreign Policy, Beginning in the Core of Europe, firmato, quest’ultimo, insieme al filosofo Jacques Derrida. Benché, come ogni pamphlet, questi due scritti abbiano uno scopo più divulgativo che accademico, essi possono essere utilizzati per introdurre il fondamento teorico della riflessione habermasiana, contenuta in Fatti e Norme e The Postnational Constellation, e il concetto di democrazia cosmopolita. Per superare il problema del pluralismo, matrice distintiva della contemporaneità e del mondo globalizzato, Habermas, secondo cui la determinazione di sé è il criterio di una distintivo di una democrazia, collega la possibilità di una democrazia post-nazionale ad una identità politica condivisa.

Proprio questo punto però viene criticato da parte dei cosiddetti trasformazionalisti e dai teorici della demoi-crazia. Secondo questi ultimi, che partono proprio da una critica duplice alle tesi di Habermas e di David Held, i demoi nazionali non sono affatto destinati ad essere soppiantati da un demos regionale o globale superiore. Non solo, ma, posto che solo un demos consolidato con una forte identità collettiva può legittimare una democrazia, essi sostengono che all’interno di istituzioni post-nazionali i demoi non ambiscano a unirsi in un unico demos, bensì si fanno portatori di diritti negativi di protezione e positivi di partecipazione (che quindi non sono ascritti ai soli individui). Nella concezione demoi-cratica, la dimensione individuale quindi non è l’unico aspetto del nocciolo normativo di una democrazia liberale.

Per dare una interessante definizione di cosa si intenda per demoi-crazia, prendiamo in considerazione le tesi di Francis Cheneval e Frank Schimmelfenning, i quali sostengono che il gap che si è aperto tra gli interessi globali e quelli nazionali può essere colmato solo con una esplorazione teoretica e normativa del concetto di Demoi-crazia. Quest’ultima infatti rappresenterebbe «an intermediary realm of political justice between national and international politics».

Punto di riferimento filosofico principale dei teorici della demoi-crazia è indubbiamente il costruttivismo politico di John Rawls, sviluppato in Liberalismo Politico e Il diritto dei popoli, e che fornisce il background teoretico normativo che sta alla base dei principi che rispondono alle aspettative normative di una democrazia e al concetto di giustizia politica all’interno di una società internazionale di popoli liberali democratici.  Da Rawls viene ugualmente mutuata l’idea per cui ogni integrazione concreta tra demoi deve essere approvata dai singoli “self-governing demoi”. Di fatto, viene riproposta una situazione molto simile, se non identica, alla posizione originaria rawlsiana, da cui i principi demoi-cratici vengono derivati autonomamente, senza deduzioni esterne. Prenderemo quindi in considerazione i testi di Rawls e li confronteremo con le tesi, cosiddette demoi-cratiche, cercando di stabilire i punti in comune e i punti critici.

Altra tradizione che fa da sfondo alla teoria demoi-cratica è indubbiamente il repubblicanesimo. Sotto questo punto di vista sono importanti le riflessioni di James Bohman, il quale riprende il concetto di libertà come non-dominio e non-tirannia e collega, a sua volta il concetto di democrazia a quello di giustizia. Bohman nei suoi Democracy across Borders e Public Deliberation sviluppa il concetto di un Democratic Minimum che consiste nell’elaborare le condizioni di non-dominio necessarie per democratizzare la democrazia e correggere le ingiustizie, dando il minimo necessario di poteri normativi ai cittadini, così che abbiano la possibilità di influenzare la distribuzione di diritti e doveri. I cittadini e i popoli devono avere la possibilità di iniziare un processo deliberativo e in ciò risiede la libertà umana suprema. La demoi-crazia quindi dà estrema importanza al processo deliberativo come elemento al quale guardare per determinare l’efficienza o meno di un sistema democratico post-nazionale. Come punti di riferimento nella lettura di Bohman indubbiamente troviamo la riflessione di Philip Petit, John Dryzek e Robert Dahl.

Abbiamo quindi tratteggiato un profilo, seppur breve, di cosa sia o di cosa possa essere un deficit democratico e di come esso possa caratterizzare le istituzioni europee. Si tratta di una piccola mappa concettuale, ma indispensabile per poter avere le idee chiare su ciò che si legge, si dice e si scrive.

 

 

 

 

Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

1 Comment

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.