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Farla finita con la morte: “Dispute sulla verità e la morte” di Emanuele Severino

7 minuti di lettura

«Sancte Socrates, ora pro nobis», diceva Erasmo da Rotterdam; magari santo no, ma molto coraggioso se consideriamo che sciroppatosi la velenosa cicuta, guardando in su coi suoi occhi da toro, prima di morire Socrate non disse altro che: «O Critone, dobbiamo sacrificare un gallo ad Asclepio. Dateglielo, non dimenticatevene». Ad Asclepio, dio della Medicina, i galli si sacrificavano in occasione di avvenute guarigioni; e Socrate, questo il gesto che fa tremare i polsi, rende la morte un rimedio più che un male, un farmaco che guarisce (da cosa? dalla vita? dalla falsa opinione?) più che una malattia che uccide. La filosofia ha cercato sin dal suo nascere di far come Socrate, cioè di esorcizzare la morte, di porvi rimedio, di vincerla nel sapere.

Dispute sulla verità e la morte

Un utile strumento

Anche l’ultimo libro di Emanuele Severino edito per Rizzoli, Dispute sulla verità e la morte (acquista), ha come centro, insieme a quello della verità, il problema della morte. E verità e morte non possono che andare assieme, giacché è la luce della verità, o meglio, del sapere che illumina la verità (in sophía di philosophía, dice Severino, risuona phaos, luce) – è questa luce, dicevamo, che rende chiaro ciò che altrimenti rimarrebbe oscuro, ossia inesplicabile; e cosa c’è di più inesplicabile per l’uomo della morte? In fondo uomini lo siamo perché dobbiamo morire, anzi, perché sappiamo di dover morire; e che la vita sia un costante scivolare verso la «fatal quiete» come diceva Foscolo, l’hanno pensato tutte le filosofie di tutti i tempi. Ma c’è di più. Perché quella morte che noi crediamo essere un’evidenza innegabile in realtà, dice Severino, non è altro che un inganno – o meglio, la morte c’è, ma non è ciò che l’Occidente ha da sempre pensato che fosse.

Dispute sulla verità e la morte è un ottimo strumento per avvicinarsi al pensiero di Severino. Il linguaggio è semplice, lo stile tranchant non è così aggrovigliato come altrove, i testi sono tanti, pescati per lo più da interviste, articoli per il Corriere della Sera e risposte ai critici. Certo, qualche manciata di pagine Rizzoli se la sarebbe potuta evitare (Severino che ringrazia colleghi/amici, Severino che confuta colleghi/amici e simili), ma siamo convinti dell’efficacia del punto di vista presentato dal testo, efficacia che risiede nell’eterogeneità delle angolazioni sulla prospettiva severiniana, come una città il cui centro è  unico ma le entrate molteplici.

Della filosofia di Severino abbiamo già parlato altrove. Qui basterà ricordare la tesi fondamentale del pensiero severiniano, e cioè l’«eternità di tutti gli essenti»: tutto ciò che è, dice Severino, non può che essere eterno in quanto essente, appunto. L’Occidente avrebbe rinnegato questa «struttura originaria» per affidarsi alla Fede nichilistica che oggi è culminata nella tecnicizzazione del mondo. Tale Fede dice che l’ente è un oscillare tra il non esser ancora e il non esser più, e cioè, come mostra Severino, un’implicita assimilazione dell’ente al suo opposto, al nulla. Raccontato così sembra una favoletta, un mito, ma Severino ci ha speso pagine e pagine per fondare ciò che qui si dice solo di sfuggita. E lo ha fatto con un rigore forse ineguagliato.

 Un’altra morte

Comunque, sorge spontaneo il dubbio: ma se tutto è eterno, se cioè le cose davvero non escono dal nulla e davvero non ci tornano, che cos’è la morte? Noi, la morte, la vediamo: vediamo l’appassire del fiore che ritorna terra, lo spegnersi del fuoco che diventa cenere, il cadavere che non risponde. Ecco, risponde Severino, non è questo che vediamo, non è il diventar nulla dell’ente che la vita ci mostra – e come potrebbe, se il nulla è ciò che per definizione non è? In effetti non è la morte che si sperimenta, ma il «sopraggiungere di configurazioni diverse», ossia il darsi nell’esperienza di eterni, gli enti, che entrano ed escono dal «cerchio dell’apparire». La cosa è complicata. Ma ci si immagini una bobina che scorre sopra un rullo proiettore; si vorrà negare che il frammento ora proiettato, ora trascorso lungo la rotaia del rullo sia diventato un nulla? No, esso è piuttosto uscito dal cerchio dell’apparire. Non morto, né passato nel nulla: l’istante appena proiettato, semplicemente, ora non si mostra più.

Se filosofia è luce, amore per la luce, confrontarsi con Dispute sulla verità e la morte significa mettere in dubbio almeno alcune delle nostre più radicate convinzioni e farvi luce; tra queste c’è l’idea, vecchia come il mondo, che la morte sia un male, che sia annientamento. Non è così: perché quando lei c’è noi non ci siamo, quando noi ci siamo lei non c’è. Severino questo, a noi pare, l’ha mostrato con forza straordinaria. Se tu, lettore, ti ritrovi a leggere il presente articolo con cipiglio, forse è il caso di comprare il libro. Intanto ci siamo risparmiati un gallo ad Asclepio.

 

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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