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Un manifesto per gli invisibili: perché leggere «Febbre» di Jonathan Bazzi

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8 minuti di lettura

S’intitola Crescere gay a Rozzano negli anni ’90, e sopravvivere un articolo scritto da Jonathan Bazzi su Gay.it nel 2017. Su questo tema svilupperà Febbre (Fandango libri, acquista), il suo esordio letterario, candidato tra i dodici finalisti del Premio Strega 2020.

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Febbre è il racconto autobiografico di una vita vissuta tra Rozzano – estrema periferia – e Milano, centro propulsore economico, politico e sociale.

«Rozzano, Rozzangeles, non so se ce l’avete presente: si riconosce anche da lontano. Nel 1990 le hanno piazzato in mezzo, tipo segnaposto del Monopoli, la gigantesca torre della Telecom. Una costruzione altissima, 187 metri, che svetta isolata più alta di tutto il resto e che di notte sparisce: di lei restano soltanto le luci – alcune fisse, alcune intermittenti – e sembra una specie di ufo che si vede a decine di chilometri di distanza. La torre di Rozzano, il posto da cui vengo io.
Guarda, la torre: siamo quasi arrivati.
Rozzano è Milano, ma non è Milano.»

Il Bronx del Nord, scrive Bazzi. Una serie di palazzoni di case popolari abitati da famiglie rumorose, perlopiù meridionali. Sono operai, se va bene, altrimenti prostitute e spacciatori. Un «Sud raffreddato, senza mare, senza famiglia, senza più tradizioni, sradicato e reimpiantato in fretta». Si tratta del suo vicinato che si dirama verso il cielo, piano dopo piano, appartamento dopo appartamento. Storie di uomini che odiano le donne. Di donne che odiano altre donne. Una storia di periferie che si ripete di città in città, si dirama tra luoghi comuni e veridicità che riscrivono continuamente il concetto di gentrificazione.

Uomini che odiano le donne

Sua madre lo partorisce a diciotto anni. Di famiglia partenopea, ridotta a minimo essenziale da un uomo padrone, diventa improvvisamente madre. Tina e Roberto – due ragazzi, due giovani, nati e cresciuti a Rozzano – sono improvvisamente genitori. Viene loro assegnato il compito prescritto: genitrice e capofamiglia. Dura poco il loro amore – se davvero si è mai trattato di amore.

Finché il bambino era piccolo, Tina non poteva lavorare. Quando Roberto se ne va inizia a fare doppi turni, sabato e domenica compreso. E Jonathan si trasferisce dai nonni. Si insedia in un’altra scala gerarchica – tutti gli uomini della sua famiglia, tutti gli uomini del suo quartiere, sono uomini in potenza. Rimarcano un’appartenenza ancestrale ad un popolo che lottava per onore, batteva per virtù, proclamava per auspicio. Sono uomini che odiano le donne, uomini che odiano altri uomini, in una perpetua contesa per proclamare il più forte. Una volontà intrinseca di marcare un territorio di nessuno. Di possedere e governare.

Jonathan cresce tra imposizioni di ruoli esemplificatori di società marginalizzate e abbandonate a loro stesse. Come lo è la Rozzano vissuta in prima persona dal protagonista.

«Febbre»

Il perno attorno cui ruota la trama è una leggera febbricciola a cui Jonathan non riesce a sfuggire. Si sente perennemente spossato, affaticato, non è più in grado di studiare, di tenere le lezioni di yoga. Prendere i mezzi per abbandonare il suo appartamento e gettarsi nella caotica Milano è per lui un’impresa odissiaca.

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Una serie di ricerche e autodiagnosi, una caccia compulsiva contro l’invasore che si annida tra le sue cellule. Cancro, SLA, Sclerosi multipla. Sente che potrebbe essere qualsiasi cosa. Sta morendo e ciò che lo tiene in vita è la speranza di sapere, capire, guarire. Improvvisamente è di nuovo limite della società, retrovia discreta e invisibile agli occhi degli altri. La malattia è specchio della sua infanzia, costeggiata di soprusi e dolori. Il suo corpo rivendica una lotta perpetua tra il bene e il male. Fino alla diagnosi: HIV. Come un animale in gabbia annidato fra le sue ossa, feroce scalpita per uscire. Cruento azzanna ogni ostacolo che lo separa dalla libertà. Jonathan è sieropositivo.

Non ha mai nascosto la sua omosessualità – «crescere gay a Rozzano negli anni ’90 e sopravvivere» – e fare coming out con sua madre è stato un comunicare un dato di fatto. Che non spostava niente. Pensava fosse una fase. Non lo era.

Ma la vita di Jonathan è stata marchiata da tutte le incertezze vissute – famiglie disorganiche, parentele disomogenee, affetti instabili, amori ricercati e mai ricambiati. Da bambino balbettava. Studiava, studiava e studiava. Ma balbettava. Si richiudeva genuflesso su se stesso, nascondendosi alle calunnie del mondo. Dai primi anni di scuola viene bullizzato – «a Rozzano c’è sempre una scusa per tirare pugni» -, tutti lo sanno, Jonathan non si nasconde.

La sua è una fierezza intrinseca, la stessa che gli fa accettare la diagnosi asetticamente. Figlio di una donna sola e robusta contro le intemperie, non molla la presa. Ciononostante, la sua testa ha un modo di vivere la malattia diversa dal suo corpo. E l’ansia lo atrofizza. Finché la cura non è la malattia stessa. Aprirsi al mondo e lasciare che il mondo si apra a sua volta.

«Crescere gay a Rozzano negli anni ’90, e sopravvivere»

Jonathan sopravvive. Sopravvissuto alla periferia, alla lotta dei padri, all’odio verso gli uomini e successivamente all’amore per gli stessi. Soprattutto, sopravvissuto a se stesso – alle mille sfaccettature del sé: Rozzano, Milano, l’omosessualità, l’HIV. Sopravvive e non si nasconde.

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Febbre è un romanzo sulla fierezza. Un racconto di una rivincita. Ma non solo. Con Febbre Jonathan Bazzi si racconta, non nasconde nulla al lettore. Tutti i suoi segreti sono informazioni recepite e incanalate nella mente di chi legge. Si fa conoscere. E si fa amare. Ma mai compatire. Non prova pena per se stesso e non vuole che gli altri provino pena per lui. Nel 2020 parlare di omosessualità e sieropositività è ancora elemento di discordia. Un testo di nicchia che difficilmente si allontana dalla sua periferia e dalla sua marginalizzazione per diventare vox populi.

Ma Febbre non è solo un romanzo. Febbre è un manifesto sociale per tutti gli emarginati, i derisi, i rimproverati, gli invisibili. Con leggerezza e disinvoltura, racconta una storia che può essere la storia di tanti altri. Altri che necessitano di una voce, di una via, di un concetto che sia allontanato dalla sua marginalizzazione per diventare voce parlante.

 


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Giulia Lamponi

Giulia, Bologna, studentessa di Lettere Moderne, amante della letteratura, aspirante giornalista. Ogni tanto scrivo, ma più che altro penso.