fbpx
Fëdor Dostoevskij

Innamorati di Fëdor Dostoevskij: 3 libri per iniziare

/
13 minuti di lettura

Fëdor Dostoevskij è forse uno degli autori più letti e citati di tutti i tempi. E il motivo è evidente: fa scalpore ancora oggi, ancora scandalizza. D’altronde i tempi passano ma gli scandalizzati rimangono sempre gli stessi e si scandalizzano sempre allo stesso modo: basta porli davanti ad uno specchio, davanti alla realtà di loro stessi e delle loro nefandezze, e il gioco è fatto.

D’altra parte chi si scandalizza tendenzialmente è chi ha paura di perdere la propria integrità, diceva Moravia, un discepolo di Dostoevskij. E il gioco dostoevskiano è alla fine questo: quello di denudare l’uomo e fargli perdere la sua integrità, mostrargli l’infondatezza delle sue certezze e farlo crollare nell’abisso buio e tetro della sua essenza più reale, più vera, e ineluttabilmente brutale.

Leggi anche:
«Dostoevskij è un mediocre», parola di Nabokov

L’uomo di Dostoevskij così viene scomposto, pezzo per pezzo, alla ricerca di un nucleo, di un senso scatenante, ma alla fine l’esito è sempre lo stesso: l’uomo è malvagio per natura, e ciò che lo fa agire è la malvagità dell’istinto, la sua essenza più profonda.

Ma in tutto ciò, quello che più fa riflettere il lettore e talvolta lo scandalizza, è che alla fin fine, verso le ultime pagine di un qualsiasi romanzo di Fëdor Dostoevskij, si inizia a provare un senso di vuoto, che è quasi doloroso, addirittura atroce in certi casi. E questo sentore è dato dal fatto che ci si accorge per quanto i protagonisti non sono né Raskolnikov, né Alexej Ivanovic, e neppure Anton, ma siamo noi.

Chi era Fëdor Dostoevskij?

Fëdor Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821, ma pochi anni più tardi si trasferisce in campagna al seguito di tutta la famiglia. Nel 1838, dopo la morte della madre, il giovane, con suo fratello, si trasferisce a San Pietroburgo, dove frequenterà controvoglia la facoltà di ingegneria militare. Preso poi il diploma nel ’43 decide di dimettersi dall’esercito, per inseguire la sua vera vocazione: la letteratura. Sono questi anni di indigenza per il giovane, non solo per i pochi guadagni ma anche per la sua dissolutezza, fatta di gioco d’azzardo e divertimenti vari, vizi che lo attanaglieranno per sempre. Inizia in quell’anno a scrivere il suo primo romanzo Povera gente, che avrà un certo successo, e sarà seguito dalla stesura de Il sosia, e del Romanzo in nove lettere.

Leggi anche:
Fëdor Dostoevskij: la crisi folle dell’onesta ne “Il sosia”

Nel 1849 accadrà uno degli episodi più segnanti nella vita dell’autore: l’arresto e la condanna. Infatti, a causa di una sua breve partecipazione a gruppi sovversivi, viene condannato a morte, per poi essere graziato dallo Zar, proprio mentre si trovava sul patibolo in attesa della condanna. La sua pena verrà comminata in anni di detenzione in Siberia e frutto di questo periodo di prigionia sarà il romanzo Memorie dalla casa dei morti. Tornato a casa nel 1859 scriverà Umiliati e offesi e Memorie del sottosuolo, con cui riacquisterà subito una certa fama.

Nel 1866 inizia la stesura del suo romanzo più famoso: Delitto e castigo. E allo stesso tempo, inseguito dai creditori per la sua passione verso il gioco, scriverà Il giocatore. Questi sono anche gli anni in cui conosce Anna, una stenografa, che sarà la sua seconda moglie, e con la quale, appena sposato, intraprenderà un viaggio in Europa, stabilendosi in un appartamento a Firenze, davanti a Palazzo Pitti. Qui scriverà un altro dei suoi grandi capolavori: L’idiota.

Negli anni successivi vivrà in condizioni agiate, tra San Pietroburgo e la sua casa estiva di Staraja Russa, finché nel 1879 gli verrà diagnosticato un enfisema polmonare. La malattia però gli lascia qualche anno per completare forse il suo romanzo più impegnativo e più impregnato di drammaticità: I fratelli Karamazov. Nel 1881, Dostoevskij muore improvvisamente per l’aggravarsi della sua malattia e viene sepolto nel cimitero di Tichvin, a San Pietroburgo, dove si trovano le tombe di molte personalità dell’arte e della cultura russa.

Ecco allora i 3 libri da cui iniziare per innamorarsi di Fëdor Dostoevskij.

Per iniziare: «Il giocatore» (1866)

L’uomo ama vedere il suo migliore amico nell’umiliazione davanti a sé, anzi, sull’umiliazione è fondata per lo più l’amicizia

Il giocatore è uno dei romanzi più personali e autobiografici di Fëdor Dostoevskij, proprio perché anche lui era affetto da ludopatia. Scritto in contemporanea all’altro grande capolavoro, Delitto e Castigo, Il giocatore diventerà uno dei romanzi più importanti e significativi della letteratura russa.

L’autore qui, con un fare quasi da scienziato, forse un po’ simile all’atteggiamento narrativo del naturalismo di Émile Zola, analizza la psiche dei giocatori d’azzardo, scegliendone di tutti i tipi: ricchi, poveri, russi, francesi, polacchi e così via. Lo fa attraverso gli occhi di Alexej Ivanovic, un giovane precettore che lavora per la famiglia di un generale ormai ridotto quasi sul lastrico per via del gioco, che spera nella morte della zia per poter entrare in possesso dell’ingente eredità e pagare i propri debiti.

Attorno al generale c’è il ”francese”, un manipolatore, che gli rimane attaccato continuamente per via dei crediti che aveva con lui. Naturalmente anche lui in attesa della morte della zia. Poi vi è mademoiselle Blanche, una giovane e bella ragazza mantenuta dal generale e di cui questi è profondamente innamorato. Il suo nome è inventato, così come il suo fantomatico status nobiliare. Insomma vive in una sua recita dove lei fa la parte di colei che spenna il vecchio innamorato, senza nemmeno guardarlo in faccia.

Poi c’è Polina, la vera vittima di questo piccolo mondo brutale. Essa è la figlia del generale ed è l’unica che di fronte alle dissipazioni del padre cerca una via d’uscita per poter dare una speranza a sé e ai propri fratelli. Polina però è anche però il sogno proibito di Alexej, la donna che ama. E per lei Alexej farebbe di tutto, anche se lui pare esserle indifferente. Infatti Alexej, quasi emulando il generale arriverà ad iniziare a giocare per poterle dare quel denaro che le serve per scappare via. Ma lei, di fronte al “giocatore” non ne vuole sapere più nulla di lui e scappa via, rifugiandosi dall’inglese, uomo nobile e ricco che segretamente la ama. Soltanto nelle pagine finali ci sarà una rivelazione strabiliante, ma questa la si lascia alla lettura del lettore.

Parallelamente, le vicende del generale sono legate alla vita della zia, che improvvisamente arriva a far visita al nipote, ribadendogli più e più volte l’impossibilità da parte sua di ottenere un centesimo della sua eredità. Anch’essa si getterà nel gioco, perdendo molto denaro, minacciando seriamente il generale.

Ma il personaggio che subisce la sorte più drammatica è Alexej, che gettatosi per disperazione d’amore nel gioco, incomincia a vivere una vita disastrata e precaria, finendo addirittura in prigione. Saranno le ultime pagine del libro, con l’incontro con l’inglese, a dipingerci la brutalità dell’animo dell’uomo per Dostoevskij.

Per proseguire: «Delitto e castigo» (1866)

La sofferenza, il dolore sono l’inevitabile dovere di una coscienza generosa e d’un cuore profondo. Gli uomini veramente grandi, credo, debbono provare su questa terra una grande tristezza.

Raskol’Nikov, un giovane studente che vive in condizioni di miseria, decide, dopo un lungo ragionamento, che può uccidere una vecchia usuraia e portarle via tutto il denaro. Le ragioni che lo hanno spinto all’azione però poi crollano di fronte al rimorso e alla nevrosi, tanto da trovare una pace soltanto nell’espiazione della colpa in un carcere di massima sicurezza.

Delitto e castigo allora non è altro che questo: la storia di un uomo che compie un’atrocità, arrivando a creargli attorno addirittura una logica, per poi ritrovarsi a comprendere la realtà e la sua disperazione.

Ma Raskol’Nikov è un uomo, un uomo come tutti gli altri, un uomo in cui ci si immedesima fin dalle prime pagine del romanzo. E secondo Fëdor Dostoevskij, proprio questo suo essere uomo lo porta alla brutalità, ad un male assurdo. E il lettore, che ormai si era abituato ad immedesimarsi nel protagonista, ad un certo punto incomincia a seguire il suo ragionamento, ad accettarlo, fino a ritrovarsi col suo stesso rimorso a riflettere sulla natura dell’uomo.

Innamorati di Fëdor Dostoevskij: «I demoni» (1873)

Se non c’è Dio, io sono Dio

I demoni sono forse la continuazione di Delitto e Castigo, dove però, ”il tutto è permesso” si esprime in una dimensione differente: quella politica. Una libertà, un permissivismo estremo, che in qualche modo porta alla rivoluzione e alla sua superiorità sulla distinzione di bene e male. Naturalmente, Fëdor Dostoevskij che è pessimista di fronte alla natura umana non può concepirne una tale libertà. E pertanto sembra voler ricondurre l’uomo verso una morale e un’etica, dove la vita assume un così grande valore che non può essere sacrificata per nessun ideale.

Nikolaj, dopo aver passato nella dissolutezza degli anni all’estero, torna a casa dalla madre Varvara, completamente svuotato di ogni virtù o di ogni ideale giovanile. La madre, che lo vuole far sposare con la figlia di una famiglia nobile, non sa che il figlio è già segretamente sposato con una ragazza storpia, figlia di un ubriacone di San Pietroburgo, sposata senza alcuna apparente ragione.

Nel frattempo, tornato nella sua città, si immischia in un progetto rivoluzionario, per cui avrebbe dovuto assieme ai suoi compagni rovesciare le autorità laiche e religiose dello stato. Ma tutti i propositi rivoluzionari si perdono nel momento in cui i giovani iniziano a sospettarsi di tradimento l’un con l’altro, fino ad arrivare all’omicidio.


In copertina: Artwork by Madalina Antal
© Riproduzione riservata

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Vladislav Karaneuski

Classe 1999. Studente di Lettere all'Università degli studi di Milano. Amo la letteratura, il cinema e la scrittura, che mi dà la possibilità di esprimere i silenzi, i sentimenti. Insomma, quel profondo a cui la parola orale non può arrivare.