fontamara

Come «Fontamara» di Ignazio Silone insegna a non sottomettersi alla Storia

Articolo della newsletter n. 49 - Aprile 2025

7 minuti di lettura

«A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite morti amori odii invidie lotte disperazioni».

Con queste parole, Ignazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli, ci presenta Fontamara, un luogo inventato, ma totalmente aderente alle pieghe della mente in cui lo scrittore conserva i ricordi del suo luogo natale, Pescina dei Marsi, nella regione della Marsica, coriaceo midollo d’Abruzzo. Come dirà Albert Camus, commentando Vino e Pane, un romanzo di Ignazio Silone ambientato nelle stesse ruralità marsicane: «Se la parola poesia ha un senso, è qua che la ritrovi, in questo spaccato di un’Italia eterna e rustica, in queste descrizioni di cipressi e di cieli senza eguali e nei gesti secolari di questi contadini italiani».

Ed è proprio qui, ottanta anni dopo la liberazione italiana dal fascismo, che dobbiamo tornare. Ai contadini della Marsica, a uomini senza strumenti costretti al baratto quotidiano della propria libertà come unica merce di scambio con i potenti. Bisogna camminare tra le strade di Fontamara per comprendere che, a differenza dei suoi abitanti, siamo liberi di scegliere e di contrapporre la nostra coscienza allo spirito del nazifascismo che oggi aleggia sul mondo occidentale. Perché il fascismo non è un unicum, né un prodotto del passato o un decreto del fato, ma un modello politico i cui presupposti rimangono disponibili per una selezione e ricombinazione, e la cui affermazione dipende dalle circostanze storiche. E poiché ogni situazione storica può svilupparsi secondo strade diversissime, «ciò che in definitiva risulta decisivo sono la coscienza, la volontà e la forza degli esseri umani» (Ignazio Silone, Il fascismo. Origini e sviluppo, 1934).

Fontamara è un romanzo corale che narra la vita dei Fontamaresi, un gruppo di “cafoni”, ovvero di contadini, di “carne abituata a soffrire”, che vivono senza alcuna conoscenza e consapevolezza del mondo che li circonda, avulsi dalla realtà perché non ne comprendono i meccanismi. Come i personaggi di Giovanni Verga vivono in balia della fiumana del progresso, così i Fontamaresi sono continuamente travolti dalle oppressioni loro imposte dalle varie amministrazioni locali, tuttavia non conoscendo mai un reale cambiamento nelle loro condizioni di vita. Così parla un cafone con amara ironia:

Tutte le novità portateci dai piemontesi in settant’anni si riducono insomma a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la sono ripresa. Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una sola volta. A noi è sempre bastata la pipa.

In balia della Storia, i Fontamaresi subiscono i soprusi dei potenti che li amministrano senza posa, quasi come se tale destino fosse il manifestarsi di una tara ereditaria che colpisce chiunque nasca entro i confini di quelle terre aspre. Nella vicenda dei cafoni, si fondono dunque i tre principi del naturalismo francese le milieu, l’hérédité, e le moment historique – riconciliandosi sotto il nome di “Fontamara”. Il contesto sociale (le milieu) di Fontamara è anche tara ereditaria (l’hérédité) ed è anche momento storico (le moment historique), perché la Storia a Fontamara è ferma da centinaia di anni, ciò che cambia sono solo i contorni politici lontani, come lo scorrere degli anni su un calendario dalle pagine bianche.

Fontamara è dunque il racconto dell’urto fra le comunità contadine e la politica, che le raggiunge ma solo per devastarle, cosicché «di fronte a ogni nuovo Governo, un povero cafone non può dire altro che: Dio ci la mandi buona». Similmente, nella prefazione di Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi scrive che i contadini del Mezzogiorno vivevano «fuori della Storia e della Ragione progressiva». Si sottolinea dunque l’ipocrisia del progetto fascista che professava un’Italia unita, patriottica e nazionalista, ma fondata sull’ostracismo dalla vita politica e sociale delle “classi subalterne”.

Questi uomini in camicia nera, d’altronde noi li cono­scevamo. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di venire dì notte. La maggior parte puzzavano di vino, eppure a guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestieri, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesan­te; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autori­tà, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. Incontrandoli pei strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte e in gruppo cattivi, malvagi, traditori. Sempre essi erano stati al servizio di chi comanda e sempre lo saranno. Ma il loro raggruppa­mento in un esercito speciale, con una divisa speciale, e un armamento speciale, era una novità di pochi anni. So­no essi i cosiddetti fascisti.

Così i fascisti permeano dentro la vita di Fontamara, forti della loro dottrina e del loro pensiero unico, e si scontrano con i cafoni, privi di percezione storica, creando situazioni paradossali, che, secondo il critico letterario Nicolò Mineo, portano a uno «smascheramento della politica oppressiva esercitata dal regime fascista nei confronti dei contadini poveri». Questo smascheramento, tuttavia, non viene presentato da Igazio Silone in toni compassionevoli, bensì si gioca tutto sul piano dell’ironia e della satira. Come quando, convocati in città per un’adunata, i cafoni issano sul camion l’enorme stendardo di San Rocco, credendo che fosse quello il “gagliardetto” che era stato detto loro di portare. O come evidenziato dall’episodio in cui i Fontamaresi, non sapendo cosa rispondere alla domanda «Chi evviva?» vengono schedati come “refrattari” da parte dei fascisti.

«Chi evviva?» gli domandò bruscamente l’omino con la fascia tricolore. Teofilo sembrò cadere dalle nuvole. «Chi evviva?» ripeté irritato il rappresentante delle autorità. Teofilo girò il volto spaurito verso di noi, come per avere un suggerimento, ma ognuno di noi ne sapeva quanto lui. E siccome il poveraccio continuava a dar segni di non saper rispondere, l’omino si rivolse a Filippo il Bello che aveva un gran registro tra le mani e gli ordinò: «Scrivi accanto al suo nome: “refrattario”.» Teofilo se ne andò assai costernato. […] Fu il turno di Cipolla. «Chi evviva?» gli fu domandato. «Scusate, cosa significa?» egli si azzardò a chiedere. «Rispondi sinceramente quello che pensi» gli ordinò l’omino. «Chi evviva?» «Evviva il pane e il vino» fu la risposta sincera di Cipolla. Anche lui fu segnato come “refrattario”.

Fontamara si pone come romanzo dell’antifascismo eroico anche, e soprattutto, tramite la figura di Berardo Viola, che tra tutti «pensava in modo diverso». Berardo, nipote di un brigante, ma cafone come gli altri, è tuttavia dotato di una coscienza di classe, che si manifesta impetuosamente nel suo modo di vivere e parlare, ricordando il centauro “Maciste” delle Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini. Berardo vorrebbe andare in America, ma a causa della censura fascista sul lavoro, soprattutto sulla manodopera meridionale, non riesce ad allontanarsi da Fontamara.

Appena fatto il biglietto, ecco due carabinieri. Dove vado? Dico, a Cammarese, per lavorare. Mi han domandato: «Fuori la tessera». E io, che tessera? Che c’entra la tessera? «Senza tessera non si può lavorare», dicono «così è nel nuovo regolamento dell’emigrazione interna.» Ho cercato di convincerli che io non andavo a Cammarese per l’emigrazione interna, ma soltanto per lavorare. Però è stato tutto inutile. «Noi abbiamo degli ordini» hanno detto i carabinieri. «Senza tessera non possiamo permettere di salire in treno a nessun operaio che si trasferisca in altra regione per lavorare.»

Di ritorno a Fontamara, Berardo Viola incontra un partigiano abruzzese e, per un equivoco, i due vengono arrestati. Nel tempo trascorso in cella, Berardo matura politicamente, sviluppando un interesse morale nei confronti della Resistenza. Questo rinnovato interesse lo porterà ad auto-accusarsi di essere il “Solito Sconosciuto”, un noto sostenitore della Resistenza, subendo le torture delle milizie fasciste. Il sacrificio di Berardo non sarà, tuttavia, invano, perché porterà a un parziale risveglio della coscienza dei Fontamaresi, che fondano il Che fare?, un giornale in cui denunciano la fine del compaesano e tutti i soprusi inflitti dai fascisti.

Dopo un attimo di straniamento, i cafoni si convincono: «La prima notizia deve riguardare questo: hanno ammazzato Berardo Viola. Che fare?». «Non basta, bisogna ripeterlo in ogni articolo. Ci han tolta l’acqua, che fare? Il prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare? In nome della legge violano le nostre donne, che fare?»

Le squadriglie fasciste non faranno passare molto tempo prima di vendicarsi sui Fontamaresi per la pubblicazione del giornale, chiudendo immediatamente lo spiraglio aperto dai cafoni verso una loro personale Resistenza. Ignazio Silone ci lascia dunque con una domanda, in conclusione del romanzo:

Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?

Che fare? Sicuramente resistere, opporsi, indignarci, combattere, non sottometterci alla Storia. Perché, come scriveva Antonio Gramsci, «chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano». E perché, come ci ricorda Italo Calvino:

Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono.


Illustrazione di Annachiara Mezzanini

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Mavi Soda

Classe 2003, studia Psicologia e Linguistica a Londra. Da sempre coltiva un amore per tutto ciò che riguarda le parole, che ritiene la più grande invenzione della storia umana, per citare David Peterson. Da bambina leggeva camminando, finché non ha sbattuto la testa contro un palo e ha capito che fosse un’attività da fare seduti. Ama scrivere e inventare storie, leggere e rileggere; fa le orecchie alle pagine più spesso di quanto le piaccia ammettere.

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