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Gilgamesh: l’inizio di una ricerca eterna

dalla newsletter n. 43 - ottobre 2024

4 minuti di lettura

L’umano ha un difetto di fabbricazione: prima o poi muore. Tutte le civiltà si sono dovute confrontare con questo inconveniente, alcune creando un sofisticato pantheon, altre cercando la soluzione con la scienza, altre ancora provando a fare finta di niente. Ora il progresso della medicina ci illude di trovarci sempre più vicini all’immortalità. In attesa di confrontarci con la vita eterna, i nostri antenati possono ancora insegnarci qualcosa? Chiediamocelo analizzando il mito di Gilgamesh, uno dei più antichi della storia.

Secondo la mitologia sumera, poi condivisa da Babilonesi e Assiri, Gilgamesh era il quinto re della città-stato di Uruk, per due terzi dio e per un terzo umano. Le fonti su questo personaggio sono antichissime: la tavoletta più antica in cui viene nominato risale almeno al 2600 a.C., mentre i primi poemi che lo vedono protagonista furono scritti circa cinque secoli dopo. Questo li rende per molti versi i capostipiti dell’epica “indoeuropea”.

Le storie di questo eroe mesopotamico sono profondamente legate a quelle di Enkidu, un altro eroe forte e selvaggio inviato dagli dèi per soccorrere i cittadini di Uruk oppressi proprio da Gilgamesh. I due personaggi, dopo essersi scontrati in un duello, realizzano di non potersi sconfiggere a vicenda e diventano amici inseparabili (e secondo alcune recenti riletture, persino qualcosa di più). Cominciano così ad affrontare grandi imprese, fino a quando uccidono il Toro celeste, scatenando la furia della dea Ishtar che uccide Enkidu con una malattia.

È il momento della grande disperazione di Gilgamesh, che abbracciando il suo lato umano si mostra fragile come solo un eroe epico poteva mostrarsi. La morte dell’amato compagno segna il momento di svolta, che quasi sorprende noi lettori contemporanei abituati a eroi inarrestabili e onnipotenti. Di fronte alla sofferenza, Gilgamesh si rivela profondamente fragile e sensibile. Un re crudele che fino a quel momento si era creduto inarrestabile si accorge di essere mortale e decide di trovare una soluzione che lo risparmi dallo stesso destino.

Il bel re non si rassegna, mirando egoisticamente alla sua sopravvivenza, e comincia la sua ennesima avventura, irta di pericoli e tentazioni, alla ricerca di un luogo alla confluenza di più fiumi tanto simile al Paradiso terrestre biblico. Qui vive l’unico uomo che può aiutarlo: Utnapishtim, sopravvissuto al grande diluvio che ha colpito la regione tempo prima, ottenendo poi l’immortalità in dono dagli dèi (ma questa è un’altra storia). Utnapishtim racconta la sua storia a Gilgamesh e ne ascolta le sofferenze, prima di ammonirlo: la vita eterna non è cosa da uomini. Ma l’incontro non è vano, perché il re sumero riceve in dono la saggezza che gli permetterà di essere amato dal suo popolo una volta tornato a Uruk. Inoltre, Utnapishtim gli parla di una pianta spinosa e difficilissima da cogliere, ma capace di concedere l’immortalità, che cresce nel lago davanti alla sua dimora.

Gilgamesh ovviamente si tuffa e recupera la pianta, e dopo l’impresa si addormenta esausto sulle rive del lago. Ma a quel punto arriva un serpente che divora la pianta, costringendo l’eroe a tornare a casa a mani vuote. Rientrato a Uruk, Gilgamesh si dedica a costruire delle mura imponenti e ad abbellire la città, mettendo in pratica i consigli di Utnapishtim e diventando un re amato da tutti. Perché solo nella memoria altrui e nella commemorazione di un grande uomo quest’ultimo può considerarsi davvero immortale.

Nella faticosa quest del nostro eroe sumero senza tempo entrano in gioco tanti elementi, non solo simbolici. Il suo timore di morire è quello che accompagna noi umani da millenni, e che tutte le civiltà hanno esorcizzato o abbracciato all’interno delle loro mitologie. In tante storie l’immortalità è a portata di mano ma viene persa inevitabilmente: due celebri esempi sono quello di Adamo ed Eva, immortali e perfetti, che perdono i loro privilegi quando scelgono di abbracciare la conoscenza e quindi la carnalità, oppure quello di Orfeo che si volta per assicurarsi che Euridice lo stia seguendo fuori dagli inferi ma che così facendo la perde, stavolta per sempre.

Tra gli eroi quasi immortali più celebri c’è ovviamente Achille, immerso nello Stige dalla madre Teti tenendolo per il tallone, che gli sarà fatale alla fine della Guerra di Troia. E senza andare troppo lontano, la vita eterna dell’anima è uno degli elementi centrali della dottrina cristiana, e la possibilità di diventare immortali è uno dei doni concessi dal Graal al cavaliere che lo ritroverà.

Nel compiere un’azione profondamente terrena, cioè riposare, Gilgamesh perde il suo dono straordinario, ma proprio nella ricerca della pianta miracolosa esplora la condizione umana raggiungendo la consapevolezza dei nostri limiti: decisamente un esito non scontato per un semidio. Alla fine del viaggio la morte non è più la nemica da affrontare a tutti i costi, ma parte integrante della vita: alla vera saggezza si arriva solo dopo questo doloroso passaggio, che si parli di un re o di un umano qualsiasi. Forse questo archetipico eroe sumero contiene già tutte le caratteristiche che avrebbero fatto dei “superumani” uno dei fili conduttori delle culture umane, dagli dèi ai supereroi. Solo nella loro imperfezione, infatti, noi comuni mortali abbiamo potuto trovare un’identificazione e, perché no, uno stimolo a cercare qualcosa di più dalle vite che stiamo vivendo.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

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Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole, montagne e un po' di pace. Specializzato in storia economica e sociale del Medioevo, ho fatto un po' di lavori diversi ma la mia vita è l'insegnamento. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

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