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«Il giorno perduto» e la tragedia della Coppa dei Campioni ’85

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6 minuti di lettura

Erano le 19:20 del 29 maggio 1985. Juventus e Liverpool si preparavano per scendere sul campo dello stadio Heysel, Bruxelles, e giocarsi la finale della Coppa dei Campioni, l’attuale Champions League. I tifosi inglesi – gli hooligans – cominciarono a spingersi verso la curva che credevano destinata ai tifosi juventini, i quali invece si trovavano dal lato opposto. A questi ultimi, a causa della polizia belga che credeva di poter facilmente arrestare quell’inizio di sommossa, vennero chiuse le vie d’accesso e si trovarono così ammassati contro al muro. Quel muro, alla fine, crollò. Morirono 39 persone e ne rimasero ferite più di 600.

A trent’anni da questa tragedia, definita Tragedia dell’Heysel, Gian Luca Favetto (La Repubblica) e Anthony Cartwright (definito da molti come degno erede della letteratura inglese), con assoluta delicatezza, ci immergono ne «Il giorno perduto» (edito da 66THAND2ND). È un romanzo che comincia e si conclude con questo tragico evento, ma che vuole lasciare molto di più.

il giorno perduto

«Il giorno perduto» trama

Quattro ragazzi italiani partono – dopo aver accuratamente organizzato ogni singolo dettaglio del viaggio, comprese le donne con le quali festeggeranno la sperata vittoria – da Breglio grazie ad una Renault R4. Nel corso de «Il giorno perduto» la Renault assume una sembianza mistica: in ogni angolo di quest’auto sono racchiuse speranze e sogni differenti. C’è chi sogna il divertimento, chi unicamente la vittoria della squadra tanto amata; chi semplicemente di laurearsi o ancora prima di trovare la propria strada. Sono sogni bagnati da birra calda e cibo improvvisato, comperato in qualche piccolo market lungo la strada.

Nello stesso momento, a Newport, un altro ragazzo della stessa età lascia la sua casa. Stessa destinazione, cammino diverso, e non solo per la disorganizzazione e i mezzi di fortuna. Monk (questo è il soprannome di Christy, che lascia intendere tutto) vive una situazione difficile a causa di una madre che l’ha abbandonato, un padre visto come un eroe caduto per una grave malattia che lo paralizza in casa e un amore finito che non si rassegna a liberare dalla sua morsa. Attraversando in treno l’intero stato, poi facendo l’autostop, Christy ci dona i suoi vissuti personali. Spera forse in un controtransfert di qualche compagno immaginario che poi si incarnerà nel lettore.

La casualità della vita

«Ma siamo a Torino, non a Los Angeles». L’avvenire di questi giovani quasi uomini è legato a un filo, che somma fantasia e vitalità. Ma la vitalità non è sempre palese: tanto quanto i quattro ragazzi italiani cantano, suonano, scherzano e litigano in quell’automobile, con la stessa intensità il fragile inglese si mette in viaggio, decidendo inconsciamente così di affrontare per la prima volta veramente tutta la sua vita gocciolante, cercando una fine (o un inizio) che non sia malinconia.

Se li guardi da fuori, ora che l’R4 scondinzola accanto alla foresta di Fontainebleau, vedendo le loro teste che ingombrano l’abitacolo, zeppe di pensieri, capelli, desideri, ti accorgeresti che sono dei sopravvissuti all’infanzia e all’adolescenza. Così elucubra il Mich, abituato a estraniarsi da ciò che gli accade intorno. Guarda fuori. Prima di mettere a fuoco il paesaggio, gli occhi si fermano sull’immagine riflessa nel vetro: riconoscono il tipico ventenne sopravvissuto all’adolescenza.

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Il bello della vita è la casualità: basta una lattina di fortuna a scacciare quella malinconia che sembrava non volersene andare nemmeno per un secondo. E invece, per addirittura qualche minuto, quella stessa malinconia cede e va forse a nutrirsi in qualche pub, in vista già del viaggio di ritorno. Questo capita a Christy, che, grazie ad un’occhiata complice, si scrolla per un attimo quel suo precoce sentirsi finito. Senza nemmeno chiedersi perché, si ritrova dentro ad una ‘partitella’ improvvisata del gruppo di ragazzi italiani sulla Grand Place.

Se questo non fosse successo, Favetto e Cartwright avrebbero comunque fatto acquistare al gruppo italiano il loro sigaro ‘della vittoria’ in una tabaccheria gestita da un loro compatriota, ma forse Monk non sarebbe tornato a casa più consapevole e non sarebbe diventato adulto.

«Il giorno perduto» e i piccoli gesti

il giorno perduto

Quel gesto di amicizia gratuito ha permesso ad uno dei giovani italiani – ormai uomo – di tornare a Bruxelles, di ordinare un drink e con lo stesso sguardo di molti anni prima riconoscere un viso familiare in mezzo a tanta gente sconosciuta: il viso di quel ragazzo inizialmente spaurito che in quell’idilliaco pomeriggio giocò insieme al suo gruppo di amici con quella lattina. Una lattina indimenticabile, come indimenticabili sono tutte quelle persone che rimasero coinvolte in quella che doveva essere una serata storica per gli amanti del calcio e che invece si trasformò in una serata di lutto universale che ancora perdura.

Miriam Di Veroli

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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