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In difesa di Giorgio Agamben (non che ne abbia bisogno)

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16 minuti di lettura

Dopo che un sagace ed elefantino pubblicista ha difeso un pedo-scrittore accusato di crimini ben peggiori, uno sfigato studente sente il desiderio di difendere un filosofo che in tempi normali non necessiterebbe davvero di difese. Giorgio Agamben, che per la penna di molti è diventato il simbolo visibile del nemico invisibile, il misosofo della filosofia, che col suo gergo foucaultiano corrompe con «fallaciagamben» il povero senso comune degli ignari lettori, il capo untore dei post-untori che insegna ai post-untori come post-ungere meglio col virus del postmoderno la postmodernità, ha indignato alquanto a causa delle sue parole pubblicate su Il manifesto e sulla rubrica di Quodlibet da lui curata, chiamata Una voce. Per chi non avesse letto gli articoli, sono reperibili qui.

Giorgio Agamben
Da Doppiozero

Giorgio Agamben come pretesto

Nel presente articolo non parleremo della validità di ciò che Agamben ha detto, piuttosto trarremo degli spunti dall’ondata feroce di critiche che lo ha travolto. In altre parole il corpo pubblico di Giorgio Agamben fungerà da significante per la nostra ricerca di significati. Ciò è molto importante per avere chiaro che, come s’evincerà nell’articolo, l’autore non presenterà le sue opinioni circa le restrizioni attuate dal governo: anche l’autore fra Foucault e il vaccino sceglie il vaccino. Che questa sia una scusa per mascherare con le parole di Agamben le sue convinzioni? O che, più subdolamente, l’autore partecipi del medesimo meccanismo di omologazione di cui l’articolo tratta, e che ne sia cosciente benché non lo voglia ammettere? O che forse non voglia sbigottire l’uditorio ma addolcirlo per tenerlo presso di sé e persuaderlo più facilmente?

Di cosa è accusato l’imputato?

Formalmente di niente. Sostanzialmente di farneticare. S’accusa il filosofo di camminare funambolicamente sul filo ipoveritativo dell’ermeneutica in una situazione di crisi, di interpretare immediatamente i dati della realtà con logori pregiudizi biopolitici, «di ritagliare per sé il vezzo esclusivo ed escludente del negativo puro». In poche parole, ci si sorprende della normalità di parecchi discorsi accademici.

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Sembra di leggere Maurizio Ferraris che accusa la filosofia postmoderna d’essere penetrata nella società e d’aver trasformato la modernità in liquidità, d’aver eroso i paradigmi della certezza, d’aver implicitamente dato valore e validità alle fake news e all’impianto post-veritativo dell’informazione: come se George W. Bush avesse avuto bisogno di Jacques Derrida per giustificare l’invenzione delle armi di distruzione di massa. Ma non è così, piuttosto la filosofia postmoderna è specchio speculativo delle pratiche materiali e vitali che la formano: non possiamo incolpare un filosofo d’aver corrotto la società (che tra l’altro sarebbe un tragicomico ricorso storico), quanto piuttosto interrogarci su come sia possibile che l’élite culturale risponda ai problemi mossi dalla stessa in modo pavloviano, avendo come introiettato il virus della mediocrità. In altre parole, molti degli accusatori non si sono messi a scardinare filosoficamente le parole del buon Agamben, quanto piuttosto, dopo un’accurata derisione, hanno semplicemente ripetuto i dettami del buon senso, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte.

Due rapide considerazioni

Le risposte facete, oltre a testimoniare lo scioglimento di una differenza fra i piani di dibattito, sono un ottimo sintomo della mentalità da branco che emerge nelle situazioni in cui la nuda vita è in pericolo. L’unanimità diviene una necessità psicologica e pratica, il segno retorico che testimonia un’unità di intenti, dimodoché l’illusione del controllo possa essere trasferita laddove non c’è controllo. Nella fattispecie, l’obiezione circa i metodi di contenimento del virus sono la spia d’una presunta malafede o difformità d’azione del locutore: esso, non accordandosi con me, mi mette in pericolo, o può farlo.

Giorgio Agamben

Per quanto riguarda la questione dello scioglimento, è interessante notare come gli intellettuali utilizzino media di massa per diffondere il loro sapere originariamente accademico, ossia come utilizzino un mezzo che nella pratica è essenzialmente difforme ai loro scopi. Questo produce un doppio cortocircuito: in primo luogo la misinterpretazione da parte dell’accademico del senso dello strumento, col rischio di mettersi in ridicolo di fronte a un uditorio differente da quello ideale, non abituato a un certo modo di ragionare, di parlare e di interpretare; in secondo luogo l’addomesticamento del linguaggio e del pensiero dell’autore che scrive su media difformi al suo scopo, ossia un’educazione che lo strumento attua sull’utilizzatore, educazione che impone un modo d’operare spesso inconciliabile con l’oggetto – il tono da shitposter dell’articolo di MicroMega ne è un esempio). Altresì risulta chiaro che anche il presente articolo non è esente, si parva licet, dal medesimo cortocircuito.

Come dare ragione dando torto

Tacciare Agamben in modo coercitivo è dargli ragione, significa che la mentalità emergenziale ha vinto, che gli italiani non solo

sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi

Contagio, 21 marzo

ma anche il diritto di critica. Ciò significa che davvero lo stato di eccezionalità è penetrato a tal punto nelle coscienze da aver reso possibile l’abdicazione dei principi su cui lo stesso vivere civile si fonda, che in un momento di crisi ed eccezionalità la consuetudine democratica non vale, ma vale piuttosto tutto ciò che innanzitutto perpetua l’illusione della sicurezza, in secondo luogo che difende l’unanimità circa la salvaguardia della nuda vita. Che qualcuno in circostanze eccezionali possa normalmente dissentire è reputato eccezionalmente assurdo, normalmente denigrabile.

Ci troviamo dunque in un momento assurdo, in cui l’accordo preliminare che fonda la collettività è stato ristretto e il consenso diventa il medio attraverso cui arginare il contagio dell’insicurezza. Agire e pensare in questo modo è ripercorrere le parole di Giorgio Agamben, disegnare il dissenziente come untore, farsi consigliare dalla paura, vedere nell’altro il malintenzionato.

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Il virus ci mostra che la modernità, lungi dall’aver estirpato la superstizione, ha collettivizzato e reso trasversale l’antropologia della plebe. Lo spirito democratico – che non è la democrazia in sé, quanto piuttosto il quotidiano essere con gli altri nella nostra determinata democrazia -, è un centro grigio che attrae irresistibilmente nella sua inerzia ogni forza oppositiva, individuale, rara; l’uomo della democrazia è più simile all’altro uomo, ineludibilmente conforme all’altro uomo. Ma, è questo il punto, non migliore né migliora: l’uomo democratico non mima i comportamenti dell’uomo raro, piuttosto trascina nella mediocrità tramite il biasimo e la calunnia l’altro uomo, con la chiacchiera educa il suo allievo, si riconosce nella cerchia dell’omologazione. A questa forza centripeta della democrazia, che è il suo polo oclocratico, s’oppone la forza centrifuga della libertà di critica a qualunque costo, una tensione opposta, dissolvente, essenzialmente individuale, che caratterizza il polemos dinamico di una società aperta. Tacciare un oppositore elimina il dinamismo della società aperta, è davvero normalizzare l’eccezione.

Il diritto di sbagliarsi

Molti obietteranno che le affermazioni di Giorgio Agamben sono apertamente anti-scientifiche, quindi anti-filosofiche, e che dunque non ha senso criticare le scelte del governo, se esse sono scientificamente fondate. Ma qui sorge un problema. Tralasciando le considerazioni epistemologiche, che pur sono fondamentali per comprendere gli articoli di Agamben, la scienza non ha diritti politici né ha come scopo la salvezza dell’umanità. Sarebbe una misinterpretazione, oltre che un vero e proprio svilimento, interpretare le scienze come una pratica d’utilità pubblica o d’affermazione dell’uomo nel mondo. Piuttosto l’avventura delle scienze moderne ha avuto come condizione di possibilità la diminuzione della statura dell’uomo (Hannah Arendt ha scritto pagine molto belle su ciò).

La sfera della scienza è autonoma dalla dimensione politica, tal volta ne è in opposizione: l’epidemiologo, in quanto tale, non si interessa né deve interessarsi al fatto che le misure di contenimento che la sua disciplina indica come adeguate ledano alla socialità dell’uomo, al suo benessere psichico, all’economia, o che favoriscano lo sviluppo di tecniche di controllo sociale. Non è suo compito interrogarsi sul dispositivo. Ma il politico e il cittadino devono preoccuparsene: il loro compito, in quanto partecipi della comunità democratica, è di mettere in campo soluzioni scientificamente fondate che salvaguardino il campo dei diritti e delle libertà umane. Se ciò sia or ora fatto non è all’ordine del giorno.

Vi è una tensione instabile fra scienza e politica. Se nella prima modernità la scienza appariva in svantaggio nei confronti della politica, ancillare a questa ed obbligata ad operare nei limiti culturalmente imposti, con la rivoluzione industriale i ruoli sembrano essersi invertiti: la politica è divenuta ancillare alla scienza e, ciò che è più preoccupante, nelle democrazie contemporanee il tecnico e la sua voce hanno imposto la loro autorevolezza su un’impreparata e mediocre politica, assente di strumenti per interpretare il proprio ruolo, rendendo puramente tecnici i problemi, inerti del loro nocciolo politico. Che il politico si muova secondo il parere degli esperti è un’assurdità per il medesimo motivo che vuole la scienza autonoma dalle decisioni politiche: ci vedete Luigi Di Maio a dirigere l’interferometro VIRGO?

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La scienza, infatti, s’occupa di ciò che è oltre i fenomeni, della legge che regola l’emergenza dei fenomeni. In quanto tale, essa è lontana dalla maggior parte, se non dalla totalità, delle esperienze quotidiane: l’uomo vive la sua esistenza in una dimensione sensoria, che potremmo definire la dimensione del senso comune, la quale s’oppone, benché ne sia integrata, alla “vera realtà” esibita dalla scienza. Il mondo dell’apparenza, ossia il mondo del quotidiano, è ciò su cui la politica esercita il suo potere: essa non determina le leggi immanenti alla realtà, né s’occupa di normare la legge di gravitazione universale, piuttosto delinea i tratti delle norme comuni, s’occupa delle leggi che condizionano la parte comunitaria del nostro mondo sensorio. Se ciò è, il ruolo della politica, inteso come vivere comune, è indipendente, benché integrato, alla realtà in quanto tale, alla realtà oggettiva della scienza; e, d’altro canto, la scienza nasce da domande prescientifiche ed è interpretata da uomini i quali, per la più parte della vita, si muovono nell’orizzonte comune del mondo sensorio, è necessariamente influenzata dalla quotidianità e dalle sue logiche, ossia è permeata, perlomeno nelle strutture mentali e percettive dello scienziato, dal mondo sensorio.

Giorgio Agamben
Da tg24.sky.it

Il rapporto è irresoluto e instabile, ma nulla prescrive la subordinazione di un piano all’altro, né l’eterogenesi dei loro fini. Il campo intersoggettivo della politica, seppur fondato dalla medesima realtà oggettiva studiata dalla scienza, resta un campo peculiare, con le sue autonome necessità e i suoi imprescrittibili obiettivi. Ciò significa che la dimensione scientifica, nella fattispecie il parere del tecnico, non può dirimere il giudizio politico, ma piuttosto sostenerlo come voce informata dei fatti. La democrazia, che necessita una cittadinanza altamente informata, più di quanto media, istituzioni e cittadino riescono oggigiorno a produrre, rimane in bilico fra carenza informativa e tecnicità dei problemi, svuotata di ogni carica politica, la quale permane comunque nell’ombra di ogni decisione supposta come meramente tecnica. Di qui, la stessa decisione tecnica, in quanto operata dalla politica, imprime sempre effetti politici, e spesso non è esente da cause ed interessi propri della sfera politica, donde si potrebbe interpretare la supposta pura tecnicità di una scelta come giustificazione e mistificazione di una scelta politica. Ma tutto ciò necessiterebbe di un altro articolo.

Giorgio Agamben ha il diritto di sbagliarsi, di criticare in un momento emergenziale, anche di dire che il virus non esiste. Questa voce critica, questa forza centrifuga sempre pronta a dissipare la delicata istituzione della collettività, è lì a ricordarci come troppo facilmente l’eccezionalità scivoli nella normalità, come la società democratica sia sempre assediata, in primo luogo da sé stessa, come è semplice che una crisi muti irreparabilmente il volto del mondo e ci mostri quali davvero sono i nostri valori, quale davvero la nostra antropologia. Inoltre, in un momento di limpida unanimità, su cosa potremmo litigare con gli amici durante gli skyperitivi?


 

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Mattia Brambilla

Sono laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano; amo il pensiero e le lettere, scrivo e mi diletto con gli scacchi.