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«Io, disgraziatamente, sono Borges»

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Il 27 novembre 2014 in un’intervista apparsa sul quotidiano cattolico Avvenire, María Kodama si lasciava andare nostalgica alla rievocazione dei ricordi. Lei, la vedova di Jorge Luis Borges, minuta e seria con i suoi lineamenti orientali retaggio di ascendenze giapponesi, richiamava con incredibile potenza espressiva le passioni e il carattere del marito: «Bisognerebbe chiamarlo Borges di Buenos Aires, aggiungendo al suo nome quello della città, esattamente come facevano gli antichi greci con i loro filosofi: Pitagora di Samo, Talete di Mileto».

Per uno che amava definirsi «devoto alla logica e alla simmetria», il comune esercizio dell’intelligenza trovava sfogo unicamente nelle geometrie di epoche profondamente sofistiche, bizzarre ma razionali insieme, ispirate al pensiero di uomini come George Berkeley e Arthur Schopenhauer per poi tornare indietro tra gli eresiarchi medievali, i pensatori gnostici ed esoterici, i commentatori di Aristotele. Secondo Juan Nuño «la filosofia in Borges è una specie di cosmogonia» in cui mito, dottrina, poema, narrazione forniscono un’interpretazione dell’origine e della formazione del mondo. Ciò che egli ha fatto, nei suoi esercizi di stile, è stato evocare. Ed evocazione è un termine che indica «portare qualcosa alla memoria o all’immaginazione», esattamente ciò che Borges ha fatto con le teorie filosofiche cui ha attinto nel corso della sua formazione culturale e che si sono rivelate una grande risorsa per la sua sperimentazione letteraria. Ma evocare in spagnolo significa anche chiamare gli spiriti e i morti, supponendoli capaci di presentarsi nel momento degli incantesimi e delle invocazioni, come esseri presenti, stabili, filosofi antichi tornati per guidare un moderno Levi nella stesura della sua opera.

ITALY. Sicily. Palermo. 1984. Argentinian writer Jorge Luis BORGES at the Hotel Villa Igea, in the Basile room. © Ferdinando Scianna/Magnum Photos
ITALY. Sicily. Palermo. 1984.
Argentinian writer Jorge Luis BORGES at the Hotel Villa Igea, in the Basile room.
© Ferdinando Scianna/Magnum Photos

In un’intervista del 1979 Borges dichiarava di aver “usato” la filosofia e la metafisica come strumenti letterari, semplici mezzi per chi non osava ritenersi un pensatore, essere capace di produrre pensieri propri. Nei suoi scritti si trovano tracce di tutti i classici della filosofia occidentale e di molti pensatori per lo più dimenticati. Come sottolineato da Fernando Savater:

Voltaire è stato per lui un maestro di chiarezza e di precisione, Kant ha costituito un riferimento importante per cogliere la centralità dell’esperienza morale. Schopenhauer è il filosofo che più di ogni altro si è per lui avvicinato a disvelare il segreto inaccessibile della realtà. Ancor prima, Hume e Berkeley hanno contribuito a disvelargli l’illusorietà dell’io e Leibniz lo ha introdotto all’idea che la realtà sia un’attuazione inarrestabile di possibilità e di combinazioni.

Al momento della morte, accanto al letto, aveva il Livre de Poche di Voltaire e i Frammenti di Novalis. Un momento solenne, quello dell’addio alla vita terrena, in cui ancora una volta oscillarono sospese lironia e l’immaginazione, la luce e la penombra.

L’ironia, per lo più involontaria, la sviscerò con sincerità in un’intervista a Osvaldo Ferrari in cui disse di non ricordare niente di divertente e di considerare come umoristiche certe sue affermazioni solamente per liquidarne la serietà. Ancora da Voltaire egli trasse il gusto per la chiarezza e perentorietà di ogni frase, anche di quelle più inclini all’incertezza. L’immaginazione, poi, non fu mai fine a se stessa, ma necessaria a dare voce ad altri elementi della sua poetica, una spiccata sensibilità per i paradossi filosofici, la propensione a riconoscere le ragioni dell’ombra, il gusto per l’allusione metafisica e una mitezza quasi d’ispirazione orientale.

Palermo. © Ferdinando Scianna/Magnum Photos
Palermo.
© Ferdinando Scianna/Magnum Photos

Di origini ispano-anglo-portoghese, nato a Buenos Aires e educato in Svizzera, Jorge Luis Borges ha condito i propri racconti dei più disparati temi culturali: guerrieri longobardi, indios, mercanti levantini, gauchos mistici, ebrei orientali o del Sud-America, filosofi musulmani, re arabi, maghi aztechi, sapienti indiani, spioni cinesi, oscuri letterati simbolisti, cospiratori irlandesi, misteriosi avventurieri. Una fauna umana e disparata, un insieme d’individui che popola la rumorosa Buenos Aires mischiandosi con la Londra dell’Ottocento e la Parigi di Victor Hugo, Charles Baudelaire, Jules Laforgue, Karl Huysmans. Un confondersi di città e di razze che, curiosamente, produce un risultato dal sapore antico; sotto il moderno lettore di Edgar Allan Poe e Franz Kafka, affiora, infatti, quello che Pietro Citati definisce «uno spagnolo del gran secolo, misticamente scettico di fronte alle illusioni del reale, che, per un miracoloso gioco del caso, sia stato sospinto all’indietro, fra i filosofi arabi che ricostruivano nel Medioevo il pensiero di Aristotele e di Plotino».

Anche la poesia, quella grande menzognera che dà senso alla vita, è in Borges poesia della centralità, arte senza tempo e di tutta la storia. Essa trasmette un sentimento profondo delle periferie dello spazio e del tempo, delle distanze della civiltà, delle vaghezza della memoria, del sogno, della realtà presente. Nei suoi versi pare possibile percepire una coincidenza tra la condizione dell’esistenza e il suo fine, tra le tracce che la vita lascia nel tempo e lo scorrere del suo destino. Essa è una sorta di meta di finzione, in cui ogni cosa si fa eterna e quasi si annulla per sempre. Come in un labirinto, l’universo scompare e perdura nello spettro della poesia e nelle sue cabale per figurarsi eterna, senza tempo. Così scorre la vita, senza intoppi o deviazioni e il tempo è vuoto esistenziale, fiume, fuoco, tigre sbranante.  

Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges

( “Nuova confutazione del tempo” in Altre inquisizioni)

Immagine di copertina: Selinunte. Argentinian writer Jorge Luis BORGES.
© Ferdinando Scianna/Magnum Photos

 


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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

2 Comments

  1. […] «Io, disgraziatamente, sono Borges» – Il 27 novembre 2014 in un’intervista apparsa sul quotidiano cattolico Avvenire,María Kodama si lasciava andare nostalgica alla rievocazione dei ricordi. Lei, la vedova di Jorge Luis Borges, minuta e seria con i suoi lineamenti orientali retaggio di ascendenze giapponesi, richiamava con incredibile potenza espressiva le passioni e il carattere del marito: «Bisognerebbe chiamarlo Borges di Buenos Aires, aggiungendo al suo nome quello della città, esattamente come facevano gli antichi greci con i loro filosofi: Pitagora di Samo, Talete di Mileto». Leggi tutto […]

  2. […] Jorge Luis Borges, nato a Buenos Aires nel 1899, inizia la sua carriera di scrittore con una raccolta di poesie, Fervore in Buenos Aires (1923). A detta dei suoi critici, però, è nelle opere in prosa che lo scrittore argentino dispiega tutto il suo talento. Per chi si appresta a conoscere l’autore, dunque, è consigliabile partire da queste. Aleph, la seconda raccolta di racconti pubblicata nel 1949, è decisamente un’ottima scelta. […]

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