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Pasolini e la bellezza imperfetta della dissonanza: «Il treno di Casarsa»

19 minuti di lettura

Quello di Pasolini è l’unico caso nella letteratura italiana in cui vita e scrittura si fondono così profondamente. Nel poco conosciuto racconto Il treno di Casarsa, l’autore rievoca tutti treni della sua vita e i viaggi divengono metafora di spostamenti fisici ed esistenziali.

Pasolini un uomo puro e contraddittorio

Il 3 novembre 1975 Enzo Biagi presentava ai telespettatori italiani una lunga intervista a Pier Paolo Pasolini censurata quattro anni prima. La trasmissione Terza B facciamo l’appello era stata registrata il 27 luglio 1971 ma la Rai aveva cancellato il programma per via di un procedimento disciplinare che impediva a tutti coloro che erano soggetti a un’azione giudiziaria di comparire sul piccolo schermo. Per omaggiare lo scrittore Biagi scelse – e a giusto titolo – di sottolineare un aspetto della personalità pasoliniana molte volte ingiustamente dimenticato: «Nel fondo della natura di Pier Paolo Pasolini c’era una grande innocenza, per quello che io l’ho conosciuto era una creatura indifesa».

La figura intellettuale e umana di Pasolini assume spesso i tratti della dissonanza: lo scandalo della contraddizione getta le basi della sua individualità e segna i confini di tutta la sua opera. Il lato sensibile, dunque esistenziale, emerge nella poesia: si fa spazio grazie ai discorsi sul mito delle origini e attraverso l’amore per un universo edenico incarnato nell’immagine della terra – madre/bambina – portatrice di profumi e antichi ricordi. Al contempo vi è in Pasolini il disgusto per la società contemporanea – malata, borghese, consumistica – capace di trarre nutrimento dal sangue degli uomini, dai loro infiniti sbagli nel mondo. Anche la storia è nemica, poiché non insegna, non è maestra. Il fantasma del capitalismo adombra tutto, ingloba nei suoi tentacoli persino le creature più pure: i giovani. Li soffoca trasformandoli in mostri.

Pasolini ha vissuto gran parte della sua vita tra le screpolature dei quartieri popolari di una Roma «pochissimo corrotta» perché – ricordava – ogni corruzione presuppone sempre uno stato di antecedente purezza. Ha dato voce a un universo che si identificava nell’inconciliabile dibattito tra un passato di valore – legato al mondo rurale, all’infanzia, allo slancio per sempre perduto della giovinezza – e l’imbarbarimento della società contemporanea, terreno di una classe borghese omologante che corre sì verso la modernizzazione ma che è incapace di una sincera crescita: una società deprivata da ogni divenire. Nella formulazione letteraria così come nella produzione cinematografica è sempre presente quest’altalenante binomio: l’ossimoro cerca di legare insieme gli elementi inconciliabili che a loro volta si fanno tessuto di racconto e materia di riflessione.

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Dai primi abbozzi poetici, dove la condizione primigenia è traccia di una feroce istintualità – una poesia, dunque, che è «sub-coscienziale e metastorica insieme» (Miconi, 1998) – fino agli strazianti quadri conclusivi e apocalittici di Salò, il percorso pasoliniano si snoda coerente verso l’instancabile ricerca di verità. La sua è una lettura della realtà che non lascia scampo, che non fa sconti a nessuno. La contraddizione non è mai temuta, anzi, è sempre raccontata: è resa materia di scrittura, immagine filmica, discorso intellettuale o ancora scelta esistenziale. Quello di Pasolini è un caso unico nella letteratura italiana: unico per la fusione di vita e scrittura che si cuciono insieme nel disperato tentativo di fornire una testimonianza dell’uomo e sull’uomo.

Il treno di Casarsa

Nella raccolta di prose Un paese di temporali e primule curata da Nico Naldini (1993) Pasolini ripercorre a ritroso i paesaggi della sua giovinezza. I ricordi sfumano nelle campiture cromatiche della memoria e si fanno ora suono, ora immagine pittorica: «prima ancora di imparare a leggere e scrivere disegnavo». I temi sono quelli che, col passare degli anni, diverranno monito di un mondo perduto, luoghi di purezza e antichi valori che nella società odierna vanno degradandosi «a vista d’occhio».

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Nella freschezza di queste brevissime prose ritroviamo appassionati richiami al mondo contadino inteso come un tutto concluso. Il Friuli, «misterioso paese tra le Alpi e il mare», segna l’infanzia di Pasolini. Uomo senza una città – «non ho una città che possa chiamare mia. Ho vissuto qua e là, un po’ in tutta l’alta Italia» – lo scrittore è però capace di trovare nel paesaggio estivo di Casarsa una sua raison d’être, un appiglio al suo essere nel mondo. Questi scritti, elaborati tra il 1945 e il 1951, suggeriscono già il percorso umano e intellettuale di tutto Pasolini: nell’umanità arcaica e innocente risiede il magico del mondo, quel sentimento miracoloso che non lo abbandonerà mai più e che diverrà oggetto di tutta la sua produzione futura.

Nel racconto Il treno di Casarsa Pasolini rievoca tutti treni della sua vita: i viaggi divengono metafora di spostamenti fisici ed esistenziali. Ecco quindi i tragitti verso la casa di campagna nei pomeriggi d’estate con la madre, le trasferte di primo mattino, a novembre, quando si sonnecchiava negli scompartimenti gelidi dei diretti tra Sacile e Conegliano in direzione della scuola elementare. Dai finestrini appannati per il freddo si profilano i paesaggi che resteranno per sempre impressi nella sua memoria visiva, quella mémoire involontarie che per Marcel Proust ritorna senza spiegazione nelle tracce dell’oggi. Le immagini rurali, i visi imperfetti ed espressivi della gente del Friuli sono portatori di un’umanità differente, più semplice e autentica, perché legata al ciclo naturale delle stagioni. I corpi dei contadini si fanno simbolo di una dimensione storica precisa: la gente senza cultura è metafora di coraggio, di una vivacità e di una purezza introvabili altrove.

Il tema dell’origine è incarnato nella figura della madre identificata con gli odori e i colori caldi della terra: è una bambina, «tanto più che lo è tuttora», immune allo scorrere del tempo. In lei vive il seme prezioso della sapienza: «era una di color che sanno, anzi lo era per definizione». L’origine è così associata alla giovinezza della campagna e della donna: protagonista è «la prima campagna del mondo» imperfetta nelle scottature del sole eppure tinteggiata di verdi cupi, rocce grigie, vigne color del sangue e dell’oro. L’odore è quello del sole che «pareva stupendo, come la vita stessa». Anche la salvezza – segno di consapevolezza intima e morale – coincide con il ritorno creativo alle origini: unico mezzo attraverso cui l’uomo si ricongiunge a uno stato vergine che è precedente persino alla nascita della coscienza.

1963 Roma, Pierpaolo Pasolini nella sua abitazione con la madre Susanna Colussi

Eppure, ancora una volta, la dissonanza pasoliniana non scompare, anzi ritorna prepotente nell’immagine di una campagna che se da un lato muore di sete – gli sterpeti sono disseccati, aridi, senza vita – dall’altro recupera forze segrete: i rivoli d’acqua sono copiosi e la frutta profuma. La natura è coraggiosa, non cede, oppone altre forze alla morte. La contraddizione è evidente nell’accostamento della terra – tutta vita, tutta natura – al ferro dei binari: inanimato, freddo, insolente. Le rotaie solcano il terreno, lo consumano. I fischi della locomotiva antepongono la loro vocalità artificiale alle sonorità naturali degli animali, ai canti dei grandi uccelli migratori che fendono l’aria e s’apprestano a nuove partenze.

Non si presuppone una perfezione d’intenti: la bellezza sta davvero nel non trovare incastro. Gli elementi artificiali e naturali si fondono e si dissociano nel medesimo istante. È questo il tempo della sincerità e della vita: ognuno scelga il proprio luogo d’appartenenza, sia esso naturale o fittizio, ognuno si faccia carico della propria verità al riparo dallo spettro dell’omologazione capitalistica pronta ad abbattere qualsiasi afflato creativo. Nello scarto, nell’incontro frammentato, vive quella bellezza imperfetta che tratteggerà spesso le scelte visuali del Pasolini futuro: i ragazzi delle borgate, i tramonti oblunghi e distorti del suo quartiere romano, la periferia, il fango, i porcili.

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I treni e i paesaggi divengono gli scenari della crescita: «solo nel vagone a guardare il sole che nasceva, ebbi ben tempo e modo di avere conferma di quella mia ingenua vocazione, che io consideravo quasi un dovere». I treni creano l’uomo e il poeta, insegnano la solitudine e la possibilità di riempimento del tempo, il senso dell’attesa: «arrivavo al ginnasio tanto presto che era tutto deserto, e mi mettevo lì ad aspettare». Ma i vagoni deserti o i corridoi vuoti della scuola non sono luogo di sofferenza. L’appuntamento con se stessi permette una crescita altrimenti impossibile, concede al poeta-ragazzo di confrontarsi col proprio silenzio dandogli così una nuova voce. La solitudine è un mezzo per «togliermi d’impaccio da me, per riflettere e osservare». Chiederà Biagi nella famosa intervista del 27 luglio 1971 andata in onda con quattro anni di ritardo: «Perché lei è sempre solo?». Risponderà Pasolini: «la solitudine è la cosa che amo di più».

Sui treni s’incontrano ragazzi vivaci, «diavoletti rozzi» dal «codice diverso» che con i loro scherzi goffi anticipano gli angeli caduti della produzione successiva: si pensi ad Accattone e al microcosmo degli amici di borgata. I treni sono anche i mezzi di locomozione utilizzati per rientrare dagli esami universitari: lunghi convogli che partono da Bologna e che accolgono la personalità di uno scrittore che si forma, studia e riflette sotto le bombe che infiammano l’aria. Sono ancora i treni che accompagnano Pasolini a fare il soldato: è l’1 settembre del 1943 e sempre loro, miracolosamente, lo riporteranno a casa: «i miei treni dell’8 Settembre».

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Dal 1951 al 1953 Pasolini insegnò a Ciampino. A quell’epoca abitava nella periferia di Roma, a Ponte Mammolo, sulla Tiburtina: un periodo che fu ricordato in seguito come uno dei peggiori della sua vita. Disoccupato per molti anni, ignorato da tutti, «divorato dal terrore di non essere come la vita voleva», Pasolini s’abbona ancora una volta alle Ferrovie dello Stato per affrontare ogni giorno il lungo percorso che lo conduce a scuola. Quell’impiego però, quelle venticinquemila lire al mese, sono benefiche: concedono un attimo di respiro. È vivendo una felicità disperata che Pasolini affronta il lungo viaggio d’andata e ritorno che termina solo a pomeriggio inoltrato col sole che arrossa le «tremende periferie». Ecco un nuovo ossimoro: la lieve gioia – il temporaneo sentimento di pace – si consuma contro un paesaggio imperfetto e malato, metafora di ulteriori dolori privati. «Ma pensavo, la mia consolazione era pensare. Pensare era la mia ricchezza e il mio privilegio».

Attraverso il pensiero Pasolini si ricongiunge così alle estati casarsesi: il treno non è più lo squallido mezzo che ruba tempo alla vita, è anzi lo strumento che permette il viaggio verso l’infanzia e la terra, fornendo quella libertà che è, per sua stessa natura, la coincidenza perfetta dell’essenza-uomo con la sua realtà noumenica e che, come ricorda Friedrich Schelling, rende gli esseri umani immuni dallo scorrere del tempo e dalle pieghe della storia (Strummiello, 1996). Eppure, avverte Schelling, coloro che hanno assaggiato tale libertà nutrono poi il desiderio di estenderla all’intero universo. Da qui nasce la lacerazione – la frattura pasoliniana – l’infelicità e la mancanza di speranza.

Pasolini

Tutti elementi necessari, però, al ritrovamento di quella forza interiore capace di muovere le battaglie e risvegliare le coscienze. Queste lotte appartengono alle infinite individualità che si scoprono unite per il diritto a una vita più giusta, pronte a scendere in campo per rivendicare la propria autenticità. Come Jean-Paul Sartre insegna ciascuno deve avere consapevolezza del proprio essere storico e della propria funzione storica: non c’è più individualità, la solitudine è solo un vago ricordo. Ogni uomo altri non è che tutto l’uomo: singolarità che travasa nella pluralità.

Chi non riesce a trovare una conciliazione tra la purezza originaria e il lacerante vivere quotidiano esplode, sempre secondo Schelling, «nell’autodistruzione». L’Apocalisse pasoliniana non è solo della collettività ma indaga piuttosto il singolo soggetto che, fragile e solo, si vede gettato contro il tribunale dell’esistere. Ogni uomo dovrà quindi opporre alla finis historiae la forza di un pensiero originale che si faccia carico della solitudine del vivente e che sappia incarnare in se stesso la forza di un’idea collettiva. Ritornare alle origini significa recuperare un nuovo impegno che permetta di governare l’inquietudine della società contemporanea. Tutto ciò è possibile solo attraverso un’intensa rielaborazione culturale: è solo grazie alla lettura, ai grandi classici, alla curiosità verso le cose che vi è rigenerazione. È il mito creativo che, osservando la realtà, trova in essa e attraverso essa una propria redenzione (Carotenuto, 1996).

Il fortino nel deserto si scopre così nelle pieghe più umili del presente, attraverso il gioco-scrittura, nella cornice imperfetta di un finestrino che s’affaccia sulle campagne scomposte. È un treno che si sposta veloce superando il soffio del vento. L’indagine di Pasolini non si riduce a una preghiera su commissione ma si fa viaggio personale, viadotto di putridume e bellezza da attraversare per ritrovare poi una luce nuova. La sua è forse la ricerca di un verso che sappia parlare alle coscienze risvegliando tutti gli addormentati, gli increduli, gli sfiduciati della Storia. Un verso capace di superare le barriere della società, goccia solitaria che si fa materia di consolazione per un uomo che non cercò mai consolazione: il sogno di vivere «come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi».

Ilaria Moretti

 


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