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Lo spazio sospeso in Boccaccio e Castiglione

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In tempi dominati dalla distopia, la fuga dal reale in uno spazio quieto – altro ma, si badi bene, non alternativo – appare un anacronistico retaggio di stilemi ormai corrosi, indeboliti da una letteratura che ha saputo rinnovarsi da sé mediante l’apparente affrancamento dalla pratica nostalgica dei vecchi territori. Eppure il futuro che non si vuol vivere – ma che si sa raccontare – altro non è che l’esorcizzazione di un presente allarmante, referto impietoso di una condizione instabile, drammaticamente avviata allo stadio terminale – alla tragedia annunciata. Ciò che oggi si consuma in quel campo aperto che è la letteratura (il cui sconfinamento perpetuo dall’una all’altra fonte d’arte rende impossibile qualsiasi tentativo di delimitazione) è lo sviluppo estremo, in termini solo apparentemente rovesciati, dell’incapacità di osservare in presa diretta un tempo che si avverte drammatico e sfuggente. Occorre estraniarsi da esso per poterlo rendere dicibile – immaginarlo alterato o ridimensionato, idealizzato o deformato, in un’intersezione strettissima con il fattore spazio il quale subisce gli stessi, significativi, mutamenti. Così, ciò che oggi assume i contorni di un ansiogeno scenario apocalittico trova nelle idilliache rappresentazioni artistico-letterarie di ieri il suo incredibile corrispettivo.

Per ricreare un mondo altro e (ancora) possibile, è necessario auto-sospendersi dal presente e guardarlo attraverso la lente più o meno deformante di uno scenario da imitare o scongiurare. E se, della prospettiva distopica, abbiamo oggi sostanziosi esempi su cui esercitare la critica, è bene invece richiamare alla mente due (datati) casi di utopia ricostruita, offerti allo studio da altrettanti testi canonici della nostra letteratura: il Decameron di Giovanni Boccaccio e Il libro del Cortegiano di Baldassare Castiglione.

Lo spazio sospeso
Foto da: www.europeana.eu

Le opere in questione, nonostante una dichiarata presa di distanza del diplomatico lombardo, presentano numerosi punti di contatto, che trovano nella periferica e circolare scena narrativa (con relativa scansione in giorni e narrazione a turno) l’elemento più evidente. Una cornice, dunque, che conferisce ai due testi una struttura regolare, capace di giustificare – e gestire – gli approfondimenti di volta in volta trattati. Nel Decameron un gruppo di giovani realizza un sodalizio sereno, un vivere insieme liberamente e lietamente, sfuggendo alla peste – e alla morte – in campagna; nel caso del Cortegiano, invece, un nutrito gruppo di gentiluomini e damigelle si riunisce dopo cena, secondo le pratiche di Corte, nelle sale del palazzo ducale di Urbino, chiudendo fuori dalla porta una situazione storica drammatica, che fa capolino in brevi ma intensi accenni alla «povera Italia» menzionata nelle conversazioni. Entrambe le opere si trovano comunque ben radicate nello spazio e nella storia ma, per una scelta consapevole, tali componenti risultano chiuse fuori dai confini dei rifugi. Il giardino di Boccaccio e il palazzo urbinate di Castiglione sono omologhi anche se diversi – immaginario uno, esistente l’altro – perché si collocano, rispetto al tempo e alla storia, come spazi sospesi, di ri-creazione di un mondo altro.

Lo spazio sospeso
Franz Xaver Winterhalter, Decameron, 1837
Foto da: www.lacooltura.it

Nel Decameron è la peste il punto di partenza necessario, «l’orrido cominciamento» che funge da sfondo e spunto per le «novelle, o favole, o parabole, o istorie» che l’onesta brigata si narra. È una promessa di morte, di disgregazione fisica, morale e sociale che provoca la perdita di qualsiasi senso civico, del mutuo soccorso, del vivere civile. È da questa degradazione terribilmente animalesca che i giovani del Decameron fuggono, in accordo con le parole di Pampinea che invita le altre donne ad abbandonare la città per ritirarsi «in contado».  Qui, lontano dalla società in-civile, l’onesta brigata costruisce uno spazio altro, sospeso, in cui affermare di nuovo un’ideale di vita cortese, armoniosa, socialmente e moralmente corretta. Un riordinamento, che si compie in un locus amoenus sormontato da un «palagio» – anticipazione e immagine suggestiva per il castiglioniano «albergo d’allegria», allietato da pratiche, giochi, «esercizi così del corpo come dell’animo» che lo rendono simile a un Eden, entro il quale le sorti della «povera Italia» e il pensiero della morte si affacciano fugacemente.

Come Boccaccio, anche Baldassare Castiglione ri-costruisce un mondo nuovo, sottratto a una realtà storica che si sta sgretolando. Gli anni in cui scrive il suo trattato sono del resto quelli della dissoluzione dello splendore delle corti – quell’universo a cui vuole legata la sua opera che infatti ambienta anni prima, nel 1507, quando era impegnato per conto del Montefeltro in missione diplomatica in Inghilterra. Quella drammatica storia italiana si affaccia, ogni tanto, nelle sue parole velate di nostalgia, oppure sotto le vesti di discorsi apparentemente frivoli (pensiamo a quello sulla moda nel secondo libro) o eticamente caratterizzati come necessari al principe che il cortigiano serve. Ma è in apertura del terzo libro che Castiglione elogia alla maniera retorica la Corte di Urbino, ricordando quei giochi «li quali son ritrovati per recrear gli animi affaticati dalle facende più ardue»: le fatiche di ogni giorno, senz’altro, ma anche le tristissime vicende della storia.

Palazzo ducale, Urbino
Foto da: www.lastampa.it

Ed è allora in uno dei più bei palazzi del Rinascimento italiano che egli ricrea, alla maniera del Decameron, un universo caratterizzato dalla sospensione del reale e dal dominio dell’armonia, della pacatezza e della perfezione. Castiglione e Boccaccio ipotizzano e attuano una fuga dal contagio, dalla corruzione dei tempi e dei costumi e ri-costruiscono un modello di vita comune socialmente e moralmente corretto. È un’utopia ricercata, costruita nel tentativo di fuggire dal disordine verso un ordine che appare scomparso. Ma è anche una rappresentazione necessaria, figlia di tempi in cui il presente – in forme diverse, ma in fondo uguali – ha bisogno di essere allontanato per poter essere, sostanzialmente, attraversato e indirizzato.

Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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