Psichiatria classica
La psichiatria del secolo scorso è stata ampiamente occupata dal problema della classificazione delle malattie mentali: come organizzarle in un sistema il più possibile coeso? In questo sforzo sono stati introdotti alcuni dei termini di più largo uso in questa disciplina: depressione, disturbo bipolare, schizofrenia, personalità borderline. Alcuni dei più grandi nomi della psichiatria del Novecento sono legati a questo sforzo: Emil Kraepelin è considerato il padre della psichiatria scientifica perché per primo ha distinto quei quadri che oggi chiamiamo schizofrenia e disturbo bipolare e lo ha fatto sulla base di un criterio ben preciso, la prognosi: credeva che i pazienti del primo tipo progredissero sempre verso una prognosi negativa, quelli del secondo verso una positiva.
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Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le strutture sanitarie degli Stati Uniti si trovarono a dover gestire un numero via via crescente di richieste di assistenza psichiatrica che venivano da persone, per lo più veterani, che mostravano i sintomi più variabili: dalle fobie più passeggere ai deliri più persistenti.
Gli psichiatri americani si resero conto che mancava loro una cornice teorica per affrontare questa crescente domanda e importarono quella che era stata la psichiatria più sviluppata fino a quel momento: la psichiatria tedesca. Le idee di Emil Kraepelin, per il tramite di vari autori intermedi, sono dunque finite nei manuali di psichiatria statunitensi. Ben presto hanno colonizzato le librerie universitarie di tutto il mondo e lì si possono trovare ancora.
Voci discordanti
Per la verità, le idee di Emil Kraepelin furono controverse sin dall’inizio. Si cominciò ben presto a notare che molti pazienti classificati come schizofrenici avevano una buona prognosi e al contrario molti bipolari una infausta. Si introdussero termini per definire i casi intermedi, si posero limiti e si fecero eccezioni.
Il quadro complessivo ne risultò più complicato ma non più efficace.
Pochi autori proposero modelli alternativi che trovarono un’efficacia locale e limitata: un professore con il suo gruppo di allievi di qua, uno psichiatra isolato di là. Nulla che potesse davvero toccare la psichiatria mainstream.
Problemi della clinica contemporanea
Nel fare una diagnosi, lo psichiatra contemporaneo affronta non pochi problemi:
- Come distinguere un quadro clinico dall’altro? I sintomi frequentemente sono sovrapposti e intrecciati, a maggior ragione se si guarda allo sviluppo longitudinale delle malattie mentali. Non è un caso che il paziente psichiatrico riceva nel corso del tempo molte diagnosi, spesso anche diverse. È il problema della comorbidità, la coesistenza di più malattie in una singola persona che in psichiatria, a differenza di altre discipline mediche, rappresenta un problema perché è la regola più che l’eccezione.
- La diagnosi aiuta? La risposta è: solo in parte. Il tempo ha dimostrato che farmaci pensati per un quadro clinico aiutano anche pazienti affetti da altri disturbi. Un caso eclatante è quello dei cosiddetti antidepressivi che aiutano anche nei disturbi d’ansia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nel disturbo post-traumatico.
Anche per le psicoterapie la diagnosi ha smesso di rappresentare un elemento essenziale e ad oggi i terapeuti più stagionati prendono in considerazione la struttura complessiva della persona che hanno davanti, non la diagnosi specifica.
Considerazioni biologiche
La genetica è stato uno dei terreni prediletti per la psichiatria biologica, che ha tentato di risalire alle cause della malattia mentale. Non stupirà scoprire che malattie mentali diverse condividono in larga parte gli stessi geni come fattori di rischio. L’esempio più famoso è il gene che codifica il trasportatore della serotonina (un neurotrasmettitore presente nelle sinapsi che media varie funzioni, tra cui l’umore, ed è il bersaglio di molti psicofarmaci ad oggi in uso). Si è notato che alcune varianti di questo gene sono fattori di rischio per varie malattie mentali.
Discorso analogo può farsi per i vari studi di neuroimaging, cioè i tentativi di osservare il cervello, principalmente attraverso risonanza magnetica. Per esempio si è visto che un deficit nello sviluppo del lobo frontale o un ritardo della sua maturazione durante l’adolescenza, è un fattore di rischio trasversale in psichiatria. Ciò non stupisce, dato che da tempo è noto che il lobo frontale media le funzioni più alte della nostra vita psichica, come la regolazione delle emozioni e la pianificazione fine dei comportamenti.
Modelli alternativi
Patrick McGorry è un nome famoso nella psichiatria di questi tempi perché, sulla base di quanto detto finora, ha avuto un’intuizione semplice per quanto brillante. Ha proposto di suddividere l’evoluzione della malattia mentale in “stadi” e di rimandare la diagnosi precisa agli stadi finali. In quelli iniziali, cioè quando una persona comincia a stare male, non è importante dargli una diagnosi ma piuttosto riconoscere la sua sofferenza. Dare un nome a questo sofferenza è un compito che può essere rimandato ad un secondo momento.
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L’ipotesi, in sostanza, è che le malattie mentali abbiano una serie di fattori di rischio comuni che portano ad uno stadio iniziale condiviso da tutte. Nella clinica degli adolescenti di oggi questo stadio iniziale si vede purtroppo fin troppo bene: sono ragazzi che si chiudono in casa, smettono di parlare, spesso si feriscono.
Da questo stadio iniziale sono possibili, sostanzialmente, tre decorsi:
- risoluzione, l’esito auspicabile;
- persistenza di sintomi aspecifici;
- evoluzione verso diagnosi più specifiche e strutturate.
I fattori che determinano l’evoluzione in una di queste tre direzioni sono ad oggi largamente ignoti e, probabilmente, rappresentano la grande sfida delle psichiatria dei prossimi anni.
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