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Marco Pannella: una duplice lettura della sua identità politica

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Marco Pannella se n’è andato il 19 maggio del 2016, ormai quattro anni or sono, vinto da una malattia incurabile. Ha smesso di lottare accompagnato da un coro di prevedibili tributi, ma la sua glorificazione – a onor del vero – era già in atto da alcuni anni. Cosa strana per un ribelle, un bastian contrario al quale un tempo in tanti si opponevano, destinandogli i peggiori epiteti.  

In realtà, ad un qualsiasi osservatore sufficientemente attento, un dato non sarà certo sfuggito: da tempo, la sua azione aveva ormai perso qualunque potenziale disturbante, finendo per confondersi col coro sguaiato dello scenario politico. E anzi, spesso sovrastata dalla polifonia delle voci.

Quali sono, allora, le cause che hanno condotto ad un progressivo e costante ridimensionamento del suo ruolo? Per rispondere a questa domanda, sarà necessario partire da un resoconto (inevitabilmente sommario) del suo lungo e variegato percorso.

Chi era Marco Pannella?

Marco Pannella, che è stato un vero artista della parola e un immaginifico guerriero dei diritti, dalla seconda metà degli anni ’80 si è rivelato pure un catastrofico traghettatore del suo partito, sempre più accanito nel condurlo in acqua tempestose e prive di sbocco. Difficile non attribuirne la responsabilità anche a molti dei suoi compagni d’avventura (rei di averlo assecondato in ogni sua iniziativa, da Cicciolina al partito transnazionale, dalle campagne elettorali monotematiche alla scomparsa di qualunque istanza socialista dalla sua visione economica, fino all’alleanza con Berlusconi e alla tentata alleanza con Storace).

Ma il nostro è stato figura dai molteplici paradossi, ed anche questo suo aspetto, questa sorta di vocazione all’autodistruzione, racchiude un elemento degno di considerazione: la possibile testimonianza di un rifiuto – sia esso folle o geniale – verso qualunque rendita di posizione, quasi fosse sempre necessario dover ripartire da zero. Discutibile, da un punto di vista politico, ma degno spunto di riflessione per questa classe dirigente che vive sempre dell’opposto, dell’accumulo isterico e forsennato, si tratti di soldi o poltrone, o compulsiva conquista dell’elettorato (considerato alla stregua di un semplice bottino).

Marco Pannella, nella sua lunga azione politica, è stato senz’altro marchiato da intraprendenza e coraggio, e talvolta da spensierata incoscienza. La sua instancabile attività ne ha testimoniato la capacità di leggere con sensibile anticipo il corso della storia, per lo più coincidente con la sua personale visione, e la volontà di favorirne l’accelerazione.

Difficile, dunque, considerarlo un bastian contrario a tutto tondo. Piuttosto, un precursore: auspicava esercizi commerciali aperti anche la domenica, e oggi è la regola. Invocava privatizzazioni, e ne abbiamo avute a piene mani. Tesseva le lodi dell’America, e per almeno un ventennio – dagli anni ’90  in poi – ci è toccato il ritornello degli «Usa, la più grande democrazia del mondo».  Scandalizzava una parte dell’opinione pubblica e incassava gli epiteti di frocio e drogato (dei quali andava assai fiero), e oggi nessuno si scandalizza più di nulla. Le libertà che ha lungamente predicato si sono in gran parte realizzate: divorzio e aborto in primis, ma anche obiezione di coscienza. All’appello delle riforme ormai realizzate mancano ancora la legalizzazione delle droghe e il diritto all’eutanasia, ma – soprattutto per quest’ultima – potrebbe trattarsi solo di una questione di tempo.

La componente più nota della sua azione politica, la battaglia sui diritti civili, è stata dunque in gran parte già digerita. Tutto ciò ha portato ad un normalizzazione della sua figura, che un tempo veniva percepita come conflittuale, alternativa, destabilizzante. Non a caso, lo si è accennato, in anni recenti la quasi totalità dell’informazione ha ritratto il nostro come un campione delle libertà, un modernizzatore. Riconoscimenti, questi, che la società ha rivolto sostanzialmente a sé stessa, utilizzando Pannella come un comodo specchio.  

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Eppure, dal ritratto che i mass media ci hanno servito, qualcosa è rimasto escluso, perché troppo distante dal comune sentire. Sì, c’è almeno un Pannella che non è stato ancora riconosciuto e assimilato, non solo dal “sistema” della politica ma dalla società tutta, come fosse una lingua straniera della quale non si comprende un solo termine.

La forma è sostanza

All’appello manca soprattutto l’alfiere dello Stato di diritto, il soldato della Costituzione. Marco Pannella è stato anche questo. Con rara coerenza, in questo caso, ha sempre sostenuto che «la forma è sostanza», e sempre ha sottolineato la necessità di un ferreo rispetto delle regole democratiche da parte – innanzitutto – di chi queste regole definisce e impone alla collettività: la classe politica, la magistratura. Chi invece tra noi ha più tollerato l’attitudine a barcamenarsi tra le norme, distinguendo disinvoltamente tra quante verranno realmente applicate e quante non lo saranno (e tollerando una medesima disinvoltura in chi ha l’ambizione di rappresentarci), di certo Pannella non lo ha mai votato. Non era il suo volto a capeggiare tra le consuete sfilate di manifesti elettorali abusivi, recanti i simboli di ogni altro partito. Nessun aspirante furbetto poteva riconoscersi nei suoi atteggiamenti, e brindare ad una sua elezione.

Gli italiani, lo sappiamo, sono poco sensibili a certi argomenti. Spesso più cortigiani che cittadini (si veda il bel libro di Maurizio Viroli edito da Laterza, La libertà dei servi), noi si tende per abitudine – quando possibile – ad ignorare diritti e doveri, preferendo aggirarli. Tutto ciò, me ne rendo conto, può essere facilmente scambiato per un sentito dire, un pourparler. È dunque il caso di citare un esempio, relativamente recente, a sostegno di quanto affermato.

Nel corso degli ultimi anni Marco Pannella si è trovato, solo fra tutti, a denunciare la mancata elezione di un membro della Corte Costituzionale, e ancor prima di un membro della vigilanza Rai: questioni delle quali al cortigiano non importa nulla, e men che meno al politico a caccia di voti (sul caso della vigilanza Rai, si ricorda un inconsistente Walter Veltroni dichiarare dagli studi del terzo canale che “tutto ciò agli italiani non interessa”, applaudito sonoramente dal “democratico” pubblico di Fazio). Giacinto “detto Marco” non ne ha guadagnato un solo voto, e nemmeno la soddisfazione di aver disegnato una piccola crepa nel muro delle nostre abitudini.

Tra le dimenticanze riservate al defunto Pannella, ben pochi lo hanno notato, va in buona parte inserito anche un altro dei suoi leitmotiv: il continuo riferimento alla cosiddetta partitocrazia, del quale v’è scarsa traccia all’interno del corale e commosso de profundis. Vorrà pur dire qualcosa.

La morte del gran capo radicale, dunque, ha offerto al nostro sguardo la possibilità di cogliere il rapporto tra le sue istanze e “il sistema” quale si presenta oggi. Gli argomenti esclusi dalla celebrazione rappresentano quei principi che la società non ha ancora inteso adottare, e nemmeno realmente ammettere nell’ambito del possibile. Non certo un complotto, o una censura intenzionale (tema assai caro ai Radicali), ma piuttosto una sorta di rimozione che ben ritrae – seppure indirettamente – la nostra monca identità. 

La parte essenziale dell’eredità radicale e pannelliana (necessaria proprio perché rimossa, e quindi portatrice di una verità) non è dunque la più sfavillante, quella investita dalle luci dei riflettori e ormai divenuta nostro costume. È invece l’uomo del diritto, il difensore della Costituzione e delle regole, il politico avverso all’occupazione partitocratica che si dovrebbe riscoprire. Non lo faremo, lo si può prevedere, ancora per molto tempo.

Walter Chiesa

Redazione

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