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covid terremoto di lisbona

Sulla Natura. Il Covid letto attraverso il terremoto di Lisbona del 1755

Da Voltaire a Rousseau. Una lettura della realtà attraverso riflessioni filosofiche ed eventi storici del passato. Quali sono le affinità presenti tra i due avvenimenti?

27 minuti di lettura

La ginestra non è, per Leopardi, il simbolo della resistenza vittoriosa dell’individuo sulla Natura matrigna che lo costringe ad un destino di dolori ineliminabili senza, però, riuscire ad annientarlo. Ma è, invece, il simbolo di una più elevata saggezza, la saggezza che Albert Camus attribuisce a Sisifo, il quale senza vigliaccheria e senza arroganza, accetta il proprio misero destino, non con mesta rassegnazione, ma con il lucido realismo di chi ha compreso la propria condizione: la mortalità, la finitezza.

Magnanimo animale 
non credo io già, ma stolto, 
quel che è nato a perire, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto, 
e di fetido orgoglio empie le carte, 
eccelsi fati e nove felicità, quali il cel tutto ignora,
non per quest’orbe, promettendo in terra a popoli che un’onda 
di mar commosso, 
un fiato d’aura maligna, 
un sotterraneo crollo
Distrugge sì […] 
E tu, lenta ginestra, 
piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, […] ma più saggia, 
ma tanto meno inferma dell’uomo, quanto le frali tue stirpi non credesti 
o dal fato o da te fatte immortali

Giacomo Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto

È noto che Leopardi, in un modo bizzarro per noi oggi, personificava la Natura senza conferirgli intenzionalità, ma indifferenza. Un’immagine poetica per un concetto filosofico oggi attuale dal momento che l’esistenza della nostra specie è, ad un titolo per ora potenziale, minacciata da un virus e, dunque, da un fenomeno naturale microbiologico che è indifferente a tutte le nostre logiche e distinzioni sociali. 

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Pertanto, oggi, il tema della natura non merita di essere assunto di nuovo ad oggetto di meditazione e riflessione solamente in relazione al contesto ecologico-ambientale e climatico ma, soprattutto, la natura deve essere ripensata nella sua essenza complessiva. Per farlo possiamo alimentare le nostre riflessioni e le nostre azioni su di essa certamente con le conoscenze scientifiche aggiornate, ma anche andando a leggerci i risultati filosofici degli autori che, intorno alla Natura, si sono interrogati. Riflettere sulla Natura per cercare di comprenderla e di sapere come agire con essa e su di essa è, oggi, un nostro compito al quale non dobbiamo e non possiamo sottrarci. 

La Natura, in quanto tema filosofico, ha ricevuto diverse caratterizzazioni nei secoli. Osservare la natura e cercare di interpretarla è un’attività intellettuale antichissima; almeno, in occidente, essa affonda le sue radici nel tempo dell’affermazione eraclitea secondo la quale «la natura ama nascondersi». Cioè nella riflessione dei filosofi di lingua greca più antichi, designati, appunto, come «fisiologi»: coloro che hanno meditato sulla physis, sulla natura. D’altronde, ancora Hegel avvertiva nelle sue Lezioni di filosofia della Natura, nel 1819, che quest’ultima «è data all’uomo come un problema, alla cui soluzione egli si sente altrettanto attratto, quanto ne viene respinto». 

La natura fu oggetto di interesse anche durante il secolo dei Lumi da parte dei philosophes francesi, come Voltaire, e da parte di un filosofo che dalla cerchia intellettuale dei philosophes prendeva le distanze, il «cittadino di Ginevra» Jean-Jacques Rousseau

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Proprio Voltaire e Rousseau, come ci tramanda la cronografia della storia della filosofia occidentale, ebbero un confronto in occasione del terremoto che colpí Lisbona il 1° Novembre del 1755. I due pensatori, in effetti, ebbero due reazioni teoriche diverse sul medesimo fenomeno naturale. Entrambi colti e attenti lettori delle opere filosofiche dei predecessori, la loro disputa si concretizzò in forma scritta e toccò alcune questioni che, se da un lato attengono alla temperie filosofica e culturale del loro tempo storico, dall’altro rivelano una continuità con la situazione di pandemia che stiamo vivendo da quasi un anno. E possono risultare propedeutiche, come spunto di riflessione, alla meditazione odierna sulla natura e sul virus. 

Infatti, Il tema della natura e del mondo sono ovviamente al centro del dibattito tra i due filosofi. È, intanto, rispetto al modo di vedere e giudicare la natura e il mondo che i due pensatori si distinguono e le loro riflessioni divergono. Il terremoto di Lisbona è assunto, dunque, come un espediente concreto per ragionare ad ampio raggio sulla natura e sul mondo, quindi sul destino umano, sulla Provvidenza, su Dio, e sul male. Ad avviare il dibattito è il Poema sul disastro di Lisbona, scritto di getto in 234 versi da Voltaire appena avvenne il terremoto. 

Poveri umani! e povera terra nostra!
Terribile coacervo di disastri!
Consolatori ognor d’inutili dolori!
Filosofi che osate gridare tutto è bene,
venite a contemplar queste rovine orrende:
muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri.
Donne e infanti ammucchiati uno sull’ altro
sotto pezzi di pietre, membra sparse;
centomila feriti che la terra divora,
straziati e insanguinati ma ancor palpitanti,
sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi,
tra atroci tormenti, le lor misere vite.

Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona

Il Poema suscitò la controbattuta di Rousseau esposta in forma epistolare nella Lettera a Voltaire, composta il 18 agosto 1756 e nota come «lettera sulla provvidenza», inviata direttamente a quest’ultimo. Il dibattito in questione ha come riferimento teorico di partenza la filosofia di Leibniz contro la quale Voltaire, poi, si scaglierà apertamente con caustica derisione e polemico biasimo nel racconto-pamphlet Candido, ovvero dell’ottimismo, in cui viene citato nuovamente il terremoto di Lisbona: 

30.000 abitanti di ogni sesso ed età restano schiacciati sotto le rovine. Il marinaio fischiettava, bestemmiava e diceva: “qua c’è da rimediare qualcosa”
“Quale sarà mai la ragion sufficiente di un tale fenomeno?” chiedeva Pangloss
“È la fine del mondo!” esclamava Candido

Voltaire, Candido

Nella Lettera Rousseau pone una domanda attualissima nel corso della sua riflessione sul terremoto. Attuale rispetto alle riflessioni filosofiche odierne sulla pandemia, rispetto alla nozione di «nuda vita» e di biosicurezza. La domanda di Rousseau è speculare a quella posta in questi mesi da Giorgio Agamben, nel suo intervento Chiarimenti: «che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?». Domanda che equivale a chiedere, più precisamente: che società è quella che pone la vita in quanto tale come unico bene? La domanda di Rousseau va nella direzione critica opposta. Chiede: 

Si ignora forse che la vita di un individuo è diventata la sua parte meno importante, e che non vale quasi la pena di salvarla, quando tutto il resto è stato perduto?

Rousseau, Lettera a Voltaire

Rousseau ritiene che la presenza del male nel mondo, il dolore, non è da imputare né alla natura, né a Dio, né al fato, ma alle mani dell’uomo. Il male è prodotto dalla storia umana, dal processo di civilizzazione che fa prendere all’essere umano decisioni che vanno contro la propria fragile condizione, proprio mentre crede di lavorare per il progresso e per migliorare la qualità della propria vita. Fino al punto di ritenere la vita stessa, come possibilità di vivere, un nulla nel momento in cui è spogliata da tutto ciò che il processo di civilizzazione ha dato ad essa.

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È il processo con il quale l’umanità utilizza la natura per difendersi da essa e per migliorare il proprio tenore di vita a costituire la scelta fatale con la quale, lungi dall’essersi messa a riparo, accresce la propria vulnerabilità, amplificando in termini di dolore e tragicità gli esiti dei fenomeni naturali, già di per sé ostili, che la investono con una forza distruttrice maggiormente percepita. In conclusione, i mali che la natura riserva all’uomo, secondo Rousseau, sono assai minori e più lievi rispetto a quelli che l’uomo stesso si procura da sé. Il tema della scelta di come gestire la vita e la società in relazione alla natura è tutt’altro che questione di poco conto nel periodo che stiamo attraversando. Sono precisamente le scelte politiche ed amministrative le sole che possono limitare i danni del virus.

La lezione di Rousseau è l’esortazione a scegliere in modo tale da non metterci da noi stessi in vicoli ciechi, operando senza armonizzare la civiltà che costruiamo con la natura in cui viviamo. Ma in conformità con la natura che abitiamo, senza essere né codardi né arroganti, per dirla con Leopardi, difenderci realmente e non metterci in condizione di peggiorare gli esiti drammatici di un fenomeno naturale che, per quanto appare strano e incomprensibile ai nostri occhi, «agli occhi della natura non è meno regolare di quanto lo è ai nostri un cerchio perfetto». Per quanto il virus, in quanto fenomeno naturale batteriologico e microbiologico, sia più pervasivo nello spazio e maggiormente persistente nel tempo rispetto ad un terremoto che è, invece, circoscritto e passeggero; l’insegnamento di Rousseau torna assai utile. Non é stata la natura, egli dice, a far abitare i cittadini di Lisbona in ventimila case da sei o sette piani; se gli abitanti fossero stati distribuiti in modo diverso e in abitazioni più piccole, forse, il disastro non vi sarebbe stato affatto. 

covid terremoto di Lisbona


È chiaro che si trattò di amministrazione e di scelte umane sulla disposizione del corpo (e dei corpi…) sociale, proprio come oggi per noi si tratta di gestire e di limitare i rischi e i danni del virus con la distanza corporale. Gli abitanti di Lisbona, chiede Rousseau, pensavano, forse, di sottrarsi al rischio del terremoto costruendo una città su quel territorio? Una domanda che oggi suona simile a questa: pensavamo, l’estate scorsa, di sottrarci ad una seconda ondata del virus ignorando la sua presenza?

Il problema del cattivo inurbamento fu la causa della tragedia, non il terremoto; cosi come, nell’ottica di Rousseau, è una cattiva gestione dell’assembramento associativo a causare l’impennata dei contagi, più che il virus. L’insegnamento di Rousseau è affine a quello leopardiano esposto nel La Ginestra: dobbiamo avere coscienza della nostra condizione nella natura e agire di conseguenza senza né illuderci, né biasimare la natura o compiangerci delle terribili sofferenze che ci infligge, ma tenendo sempre presente la nostra vulnerabilità.

L’attacco a Leibniz e la sua difesa

Leibniz è noto come quel filosofo che argomentò il modo in cui il nostro è il migliore (optimus) dei mondi possibili. Perché, sostenne, in questo mondo vige il principio di ragion sufficiente (nihil est sine ratione sufficiente) e quello di ragione determinante, i quali escludono tanto l’assenza di cause per i fenomeni che avvengono, quanto il disordine e il caos da questo mondo. Leibniz sostiene che vi è una saggezza intrinseca che ordina la natura e il mondo rendendolo buono che potremmo chiamare, con la felice espressione di David Sedley, «design intellettuale». Nei Saggi di Teodicea e nella Monadologia, così si esprime Leibniz: 

Nulla accade senza che vi sia una causa, o almeno una ragione determinante, ossia qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché questo esista anziché non esistere e del perché esista così anziché in un altro modo. E, sebbene perlopiù queste ragioni determinanti non ci siano noti abbastanza, non cessiamo di intravedere che ce ne sono

Leibniz, Saggi di Teodicea, 44

Nessun fatto può risultare vero o esistente, nessuna proposizione veridica, senza che vi sia una sufficiente ragione per cui sia così e non altrimenti, benché perlopiù tali ragioni non possano esserci note

Leibniz, Monadologia, 32

Secondo Leibniz, lamentarsi per il male «significa, in verità, mormorare contro gli ordinamenti della provvidenza» dal momento che i beni sono maggiori dei mali e il male del singolo garantisce, faustianamente, il bene del tutto. Infatti, continua Leibniz, è riscontrabile che in questo mondo spesso un male causi un bene a cui, senza quel male, non si sarebbe mai arrivati. 

Voltaire ridicolizza e biasima il pensiero di Leibniz. Secondo il filosofo francese, il nostro mondo è la patria del dolore e noi uomini siamo minacciati dalla natura che ci è ostile e non possiamo che rassegnarci alla sofferenza. Il punto di vista di Voltaire comporta un esito grave e deleterio oltre che irrealistico: la rottura netta e la contrapposizione tra la natura nel suo complesso e gli individui sensibili che la abitano. Rousseau si rende conto di questa conseguenza delle riflessioni di Voltaire e propone un punto di vista alternativo: per Rousseau il male non é nella natura contro gli individui naturali, ma nelle mani umane che forgiano la Storia ovvero nell’operato dell’uomo che tenta ognora di staccarsi dal mondo naturale.

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Il male è nelle autistiche scelte antropocentriche che non tengono conto della realtà naturale e fanno dell’essere umano il primo ad opporsi alla natura, causando con ciò il proprio male. 

Il terremoto di Lisbona e la pandemia

Questo virus ci ha fatto capire, una volta di più, che la natura è un ricettacolo infinitamente complesso rispetto al quale il nostro intelletto e il nostro ingegno sono caratterizzati da una sconfinata, e forse eternamente irriducibile, ignoranza. I filosofi della biologia, i biologi, i botanici, gli zoologi e i virologi lo sanno benissimo, dal momento che attualmente non conosciamo nemmeno la metà degli organismi viventi.

covid terremoto di Lisbona

Con Mendel prima, e con Darwin poi, abbiamo capito che la tassonomia del vivente non è data una volta per tutte nella creazione divina, come sostenuto nel Systema naturae di Linneo, ma si accresce continuamente arricchendosi di nuovi individui. Con gli studi di Richard Lewontin, ma soprattutto con quello di Richard Dawkins e Godfrey-Smith, abbiamo imparato che gli individui genetici non sono stabili, ma soggetti a mutamenti evolutivi e che i geni, come tali, si riproducono negli organismi che li ospitano e non da soli: si può pensare che il genoma del SARS-Cov-2 possa mutare struttura genetica e diventare meno o più aggressivo, a seconda della capacità che dimostrerà nel diffondersi e nel permanere negli organismi che ne garantiscono l’esistenza ovvero noi esseri umani. 

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In generale non riusciamo, né con le nostre teorie né con la nostra tecnologia, a stare al passo delle variazioni e dei «modi» della Natura, per dirla come Spinoza, tanto da riuscire a controllarla sempre nelle sue evoluzioni. Abbiamo, però, perfezionato le nostre capacità di resilienza e di difesa dalla Natura, dopo secoli di indubbie sofferenze causate da essa alla nostra specie le quali ci hanno fatto abituare ad osservarla con sospettosa ammirazione come un’entità meravigliosa e terribile che supera di gran lunga il nostro potere. 

Rousseau propone di osservare la natura in un altro modo, di relazionarsi ad essa, né disperandoci per la miseria che ci procura, né nella forma della difesa separandoci da essa, ignorandola quanto più possiamo e illudendoci così di renderci invulnerabili dai suoi fenomeni. Ma, invece, combinando il nostro agire con gli esiti possibili dei fenomeni naturali che conosciamo in un equilibrio tra noi e la natura che con le scelte giuste possiamo costruire, ad esempio, non costruendo condomini di sette piani, ammassandoci in agglomerati urbani, ma razionalizzando la nostra distribuzione nello spazio naturale e così tutelarci dai terremoti. O, nella situazione odierna, utilizzando le tecnologie digitali per evitare di andare in contro al virus e per abbassare il tasso di inquinamento dell’ambiente, per esempio.

Rousseau, nella Lettera, avanza l’idea operativa per cui l’uomo deve scegliere e agire in armonia con la natura il che non vuol dire necessariamente rispettarla saggiamente come madre, ma soprattutto tenere conto quanto più possiamo nelle nostre scelte, scientemente, delle sue leggi e della sua imprevedibilità. 

Se il terremoto di Lisbona distrusse la città e uccise metà dei cittadini della capitale lusitana, comportando come esito l’onere della sua ricostruzione e la crisi economica e psicologica del negativo assoluto della distruzione e della morte; la pandemia, come sappiamo, in questa fase sta comportando una crisi sanitaria che reca con sé quella della gestione; la quale implica non una ricostruzione da zero, ma un ripensamento organizzativo delle istituzioni, delle infrastrutture e dei settori lavorativi. L’insegnamento dato da Rousseau si accorda con il pensiero di Leibniz e comporta una reazione etica diversa da quella di Voltaire, dal momento che non reputa la natura come la patria del dolore degli individui, ma d’altro canto ci dice, a noi che viviamo un periodo tormentato come quello attuale, che un progetto umano collettivo da solo e isolato dalla natura che si pone anzi in ovvia antitesi con essa, non è sufficiente ed é potenzialmente fallimentare.

covid terremoto di lisbona

Per questo i ricercatori medici e i virologi svolgono il ruolo più decisivo oggi, perché la loro scelta di studiare il virus e di trovare un vaccino tenta di stabilire una sana intermediazione con la natura, sobria e saggia proprio perché scevra tanto della hybris del titanismo prometeico, quanto dell’isolazionismo idiota che vuole separarci dall’ostilità della natura.

Il male peggiore, dunque, non è quello che proviene dalla natura, ma quello che determiniamo noi con le nostre scelte «antinaturali» che oggi sono sostenute tanto più dalla scarsa responsabilità e dalla sottovalutazione della situazione, piuttosto che dallo spiritualismo che in passato fece credere all’essere umano di essere superiore alla natura, elevandosi al di sopra di essa. 

In conclusione, è lecito pensare, osservando ciò che la pandemia sta comportando, che forse ha ragione Leibniz ad affermare che spesso da un male nasce un bene. Forse davvero la «ragion sufficiente» esiste e riusciamo a scorgere quella del virus: l’opportunità di migliorare l’amministrazione e la sanità pubblica, di attivare un processo di razionalizzazione delle istituzioni e delle infrastrutture pubbliche, delle pratiche di lavoro, di riportare la mente verso la meditazione sulla natura. Esiti che senza il virus, forse, non si sarebbero configurati o, comunque, senza la pressione della necessità data dall’emergenza sarebbero stati lenti e punteggiati ancor più di errori e di indifferenza che adesso non ci possiamo permettere. 

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Tornando alla ginestra di Leopardi, non è questo il momento per essere codardi e scappare davanti alle difficoltà, abbandonandosi a lamenti di disperazione o all’odio verso la natura. Né è il tempo della tracotanza propria della retorica bellica molto in voga che ci fa credere di lottare per trionfare sulla natura che vuole aggredirci. Né dei pensieri complottisti o negazionisti che ci rendono idioti e irresponsabili oltre che in disarmonia con la natura e con il mondo.

Invece, è il momento di essere come la ginestra e come ci suggerisce Rousseau. Dobbiamo essere consapevoli della nostra condizione e saper scegliere il nostro bene non in maniera antropocentrica, ma naturalistica. La pandemia non ha fatto altro che spingerci a far emergere la nostra vera natura ovvero la capacità di resistere alle ostilità e di perfezionarci. Un altro concetto pensato da Rousseau. La «perfettibilità» della specie umana. Tutti gli altri animali non sanno perfezionarsi da loro stessi, l’uomo invece sì. Questo fa dell’intelligenza, dell’ingegno e della tecnica, la differenza tra l’essere umano e gli altri viventi e non il credersi superiore e onnipotente.

 


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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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