Trentatré sono i processi in cui Pier Paolo Pasolini è stato coinvolto. Oscenità, vilipendio della religione, favoreggiamento, si parla persino di rapina a mano armata. Ma a cinquant’anni dalla sua morte è chiaro che in realtà si è trattato di un unico, ininterrotto processo: la sua esistenza.
Con determinata ferocia, Pasolini (che da questo momento in poi chiameremo PPP, per semplificare) criticava la modernità, la politica, la società del consumismo, l’ottusità religiosa, le nuove generazioni che avevano perso la capaicità di reagire. A questo si aggiungeva paradossalmente una contemporanea affermazione e fortuna delle sue opere e del suo personaggio pubblico. Sì, anche il successo può essere una forma di processo per un’anima che ama la vita ma che preannuncia la morte.
Di quella tragica notte del 2 novembre 1975 si è scritto e detto tanto. Tra la verità giudiziaria e le teorie che hanno preso piede negli anni, resta una parte di storia che non sapremo mai. Ognuno, forse, ha scritto per conto proprio una verità soggettiva.
Eppure, non gli abbiamo mai reso giustizia. I ragazzi oggi sanno davvero chi era Pier Paolo Pasolini?
In primis, un poeta
Pasolini era un poeta, e di poeti ne nascono pochi in un secolo, come disse Alberto Moravia.
Pasolini intendeva dare parola, o ritrovare la parola, di chi sino ad allora non aveva saputo scoprirsi poeta pur essendolo, il popolo. Portava nel discorso letterario e nel cinema le parole e le persone che la società borghese voleva tenere fuori — il sottoproletariato, la diversità, il sesso. Non accettava divisioni nette fra alto e basso, fra “colto” e “popolare”, anzi mescolava la bellezza dell’arte e l’orrore metropolitano.
La sua forza provocatoria risiedeva nel coraggio di raccontare ciò che era scomodo, ma lo faceva con un rigore estetico e morale che lo poneva al di là del semplice “scandalo”. Le sue infrazioni si riferivano ai codici o a…