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Paolo Sorrentino

Paolo Sorrentino: il cinema come opera d’arte

Regista e sceneggiatore napoletane, Paolo Sorrentino la Penisola fino al luccichio hollywoodiano, in una carriera in perfetta simmetria nel suo posizionarsi in salita e continuamente in grado di reinventarsi, pur rimanendo sempre la stessa.

9 minuti di lettura

Il 31 Maggio del 1970, al Vomero (Napoli), nasce il regista, scrittore e sceneggiatore Paolo Sorrentino. Rimasto orfano di entrambi i genitori a soli 17 anni, terminato il liceo classico decide di intraprendere gli studi di Economia e Commercio, che abbandona  a 25 anni per dedicarsi a una delle sue più grandi passioni: il cinema. Inizia la propria carriera «sul campo» dirigendo i primi cortometraggi accanto ai registi Stefano Russo (Un Paradiso, 1994), Stefano Incerti (Il Verificatore, 1994) e Maurizio Fiume (Drogheria, 1995). Nel 1998 lavora anche per la televisione, scrivendo alcuni episodi per la fiction poliziesca La Squadra. Uno dei primi riconoscimenti  è il Premio Solinas, ricevuto nel 1997 per la sceneggiatura di Napoletani, film che non verrà mai realizzato. Con il corto L’amore non ha confini Sorrentino entra in contatto con la casa cinematografica Indigo Film, che da quel momento in poi produrrà tutti i suoi film. Il  lungometraggio d’esordio, L’uomo in più, segna l’inizio del suo sodalizio artistico con Toni Servillo, attore, amico e personaggio molto importante per la carriera e la formazione del regista. La sua prima produzione oltreoceano è This must be the place, con Sean Penn, mentre La Grande Bellezza, che si aggiudica il Premio Oscar nel 2014 come miglior film straniero, oltre al Golden Globe, al premio BAFTA, a 5 Nastri d’Argento, a 4 European Film Awards, lo consacra definitivamente regista di caratura internazionale.

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paolo sorrentino

Nonostante l’apparente semplicità con la quale schernendosi dichiara di «non avere una poetica», Paolo Sorrentino è più di un regista, è un narratore del nostro tempo e del nostro Paese, che mira a fare del cinema un’esperienza estetica ed edonistica. Ogni suo film si apre con un inizio dirompente, che «colpisce lo spettatore» e che lo inchioda alla sedia fino alla fine. L’incipit è infatti per lui una dichiarazione d’intenti, una scommessa e un’aspettativa che il regista si impegna a non tradire. Il potere evocativo di immagini meravigliose e di grandi spazi porta a creare scene dai tratti visionari e antinarrativi, come quelle della sconfinata prateria americana di This must be the place, in cui vagano personaggi che in realtà non vanno da nessuna parte. La suggestione di queste immagini nasce anche dall’intesa con lo storico direttore della fotografia Luca Bigazzi, con il quale il regista ha un rapporto che lui stesso paragona a quello «tra due vecchie zitelle che litigano ma si vogliono bene».

Il regista Paolo Sorrentino e Toni Servillo alla consegna del premio Oscar
Il regista Paolo Sorrentino e Toni Servillo alla consegna del premio Oscar

Il cinema di Sorrentino è fatto di monologhi, parabole, disillusioni, volti decadenti, uomini vecchi che vivono nel tormento della ricerca di qualcosa di nuovo. Narra quella parte di Italia in cui nessuno vuole riconoscersi, dove i protagonisti da idoli divengono artisti ormai incapaci di fare arte, cantanti che non cantano più, calciatori che non giocano più, scrittori che non riescono più a scrivere. Sono anime vaganti, maschere nude che, una volta persa il loro ruolo sociale, la loro «etichetta» (come dice Tony Pagoda in Hanno tutti ragione), si ritrovano sole, frustrate, immerse in un alternarsi vorticoso di personaggi eccentrici e stilizzati, rappresentati nella loro vacuità attraverso un singolo particolare esasperato.

Toni Servillo nel ruolo di Tony Pisapia nel L'uomo in più
Toni Servillo nel ruolo di Tony Pisapia nel L’uomo in più

Primo capitolo di questo ciclo dei vinti, è il film L’uomo in più, dove due identità, due nomi uguali, due Antonio Pisapia, uno ex calciatore e l’altro cantante sul viale del tramonto (nel quale è facile riconoscere l’indimenticato Franco Califano, cui il film è dedicato), lottano contro il fallimento nato da scelte sbagliate, nell’affannoso tentativo di riaffermare il proprio valore. Sorrentino trae ispirazione dal suo vissuto, dalle sue due grandi passioni, la musica e il calcio, e dalla nostalgia per le atmosfere degli anni ’80, per quell’universo culturale  in cui i suoi genitori lo hanno cresciuto. Un tormento lungo e confuso che gioca sull’espediente del rapporto con il proprio alter ego, con la propria interiorità, con quell’ «uomo in più», appunto, che sul campo fa sempre la differenza.

Se per scrivere un film a Sorrentino bastano poco più di due settimane, per la scelta del cast e della location il regista partenopeo impiega anche 4-5 mesi. Esempio ne è l’estenuante ricerca per l’ambientazione del film Le conseguenze dell’amore (2004), un «albergo svizzero» che Sorrentino riesce a trovare solo a Treviso, nei pressi della stazione.

Nonostante il verismo delle scene e delle ambientazioni, Sorrentino non è assolutamente un regista realista, ancorato alla mediocrità della vita quotidiana, ma piuttosto un amante del possibile e del surreale, che conferisce anche all’uomo comune un’anima drammatica e un linguaggio complesso.

Toni Servillo nel ruolo di Jep Gambardella in La grande bellezza
Toni Servillo nel ruolo di Jep Gambardella in La grande bellezza

I suoi personaggi usano un’idioma altisonante, simbolico, che procede per sentenze lapidarie, come se il film non fosse altro che un susseguirsi asistematico di «scene madri», dove ad ogni sequenza ci si aspetta una svolta decisiva, che in realtà non arriva mai. Influenzato dalla filmografia degli anni ’40 e ’50, nella quale anche il maggiordomo ha sempre la battuta pronta, Sorrentino crede fermamente in un cinema che non sia solo racconto verosimile, ma si distacchi dalla realtà e dalla semplicità del dialogo quotidiano, attraverso un parlato quasi letterario e una tagliente ironia.

La piena sublimazione della non-poetica di Sorrentino è forse riassumibile in quel titolo così scontato eppure così geniale, diventato nuovo simbolo virale del nostro immaginario collettivo: La grande bellezza.

Un nulla umano che si nasconde dietro una patina gravida di immagini mozzafiato e finti intellettuali, che affonda le radici nel nichilismo di una società sulla soglia del baratro, e che fa dell’ipocrisia la sua arma migliore per schivare le difficoltà della vita. Come Jep Gambardella, anche Sorrentino dice di credere nella forza dell’ipocrisia, un «salvacondotto per la vita che si contrappone all’eccesso di credo nella forza della verità». Roma è la cornice ideale, o meglio la protagonista, di questo alternarsi di contrasti, di volgarità e santità ostentata: è una città dove tutti parlano e nessuno ascolta. Di fronte all’armonia e all’equilibrio delle forme classiche che le conferiscono un proprio senso, l’umanità che la abita, sregolata e deforme, un senso ha deciso di non averlo.

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In questa indagine nella nostra coscienza, che cosa nasconde la profondità dell’animo umano? Che cosa si cela dietro le apparenze della società? Spesso nulla, solo la pura contemplazione e il piacere della bellezza, l’unica cosa che sembra avere realmente senso, l’unica risposta che il cinema, nato come arte muta, riesce a dare a un’umanità superficiale e inespressiva. È forse questa la vera tragedia.

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Valentina Cognini

Nata a Verona 24 anni fa, nostalgica e ancorata alle sue radici marchigiane, si è laureata in Conservazione dei beni culturali a Venezia. Tornata a Parigi per studiare Museologia all'Ecole du Louvre, si specializza in storia e conservazione del costume a New York. Fa la pace con il mondo quando va a cavallo e quando disquisisce con il suo cane.

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