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Per creare un’alternativa dobbiamo innamorarci della politica

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A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, molte lezioni sembrano non ancora apprese o quantomeno dimenticate. Da Oriente a Occidente, crescono regimi illiberali e crollano diritti che oramai dovrebbero essere assodati da decenni. Le “democrazie occidentali” perdono pezzi in favore di forze politiche il cui successo cresce al crescere di fattori quali razzismo, xenofobia e rifiuto della diversità. A questo si aggiunge spesso l’inoggettivo e poco corretto utilizzo massiccio di false notizie, pubblicate anche da noti quotidiani nazionali, in cui vengono accentuati fattori come il colore della pelle o l’appartenenza politica. Il tutto corredato dall’utilizzo di una dialettica violenta fatta di slogan, generalizzazioni e tristi categorizzazioni.

«Sei solidale? Buonista! Ti impegni per il bene del prossimo? Si vede che sei un ricco viziatello anti-italiano!»

In uno scenario simile, il rischio più grande è quello di sentirsi politicamente e socialmente orfani. E quando ci si sente soli, è facile disinnamorarsi. La domanda da porsi è: «ma noi, quando siamo diventati così?»

Una lezione dal passato 

Negli anni ‘20 del secolo scorso, ai regimi nazi-fascisti la cui forza cresceva di pari passo con la propaganda e la ripetizione di slogan basati su dati imprecisi o inesistenti, si rispose con la Resistenza e con un’opposizione che era intellettuale prima che fisica e militare. L’assenza di libertà, la crisi economica e la povertà caratterizzavano la vita della maggior parte degli europei, soggiogati da sistemi in cui serviva essere omologati, in cui il diverso veniva cacciato, perseguitato, schedato, arrestato e ucciso. Sistemi in cui il dissenso e la diversità non erano contemplati. Eppure, molti giovani decisero di sposare una fede politica, di innamorarsi di un sogno di libertà anche a rischio di perdere la propria vita.

In una lettera inviata da Pianosa nel febbraio del 1933, un giovane recluso politico definiva la richiesta di grazia inoltrata dalla madre al tribunale speciale come la peggiore offesa a lui come prigioniero politico e alla sua fede Socialista. La più grande umiliazione sarebbe stata abiurare la fede che «più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme» così come lo stesso giovane scriverà nella sua lettera al tribunale speciale dichiarando di non associarsi alla richiesta della madre. Questo giovane rimarrà alla storia come uno dei Presidenti più amati, come il Presidente Partigiano o semplicemente come Sandro Pertini, ed è opportuno considerarlo come l’emblema di una generazione che decise di combattere per la libertà di tutti noi.

fonte: Poche storie – Corriere

Con la fine dei regimi totalitari del XX secolo si posero le fondamenta per la creazione di sistemi democratici che, condannando il passato, contribuirono alla nascita del progetto europeo che puntava ad unire sotto un’unica bandiera i cittadini europei, pur nella loro diversità. Un continente da sempre in guerra iniziava così a cooperare, utilizzando parole d’ordine come solidarietà, democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani.

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Ma la storia si ripete?

La volontà di chi scrive non è quella di paragonare lo scenario attuale agli anni ‘20 e al periodo prefascista. Sarebbe inappropriato e denoterebbe una scarsa coscienza della realtà che ci circonda. Ciò che però dovrebbe far pensare è l’assenza di memoria storica e la tendenza generalizzata a rimettere sempre tutto in discussione.

La perenne ricerca della moderazione porta spesso a non prendere posizioni, condannando fermamente comportamenti deprecabili, che ancora oggi puzzano di fascismo, ma che sembrano riprendere piede tra le fila dei partiti di estrema destra. Fenomeni che pensavamo superati tornano ad essere attuali. Si pensi alle aggressioni della scorsa estate ai ragazzi del Cinema America, al recente incendio della libreria romana La Pecora elettrica, alle intimidazioni e aggressioni a giornalisti, attivisti, giovani volontari o professionisti che si impegnano quotidianamente aiutando il prossimo.

Ciò che accomuna tutte queste azioni vili è la connotazione particolarmente sessista e misogina, nel caso in cui gli obiettivi siano donne.

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Sicuramente, sarebbe più facile cercare i nomi ormai noti di chi ha sdoganato questo odio e lo fomenta giornalmente, ma purtroppo non basta. Oggi è più importante scegliere di prendere posizione, scegliere da che parte stare e forse recuperare quanto di buono ci ha lasciato la storia tornando ad essere di parte, ad essere Partigiani.  

Dì qualcosa di sinistra!

L’impressione avuta fino a poco tempo fa è che, quando serve alzare la voce, la sinistra risponde sottovoce, tiepidamente, giocando in difesa e lasciando che siano gli altri a fare la prima mossa.  La frase «Dì qualcosa di sinistra!» pronunciata da Nanni Moretti in Aprile diventa così il leitmotiv di ogni discussione in materia.  

Ma guardando il mondo che ci circonda dal Sud America alla Turchia, dagli Stati Uniti alla Spagna, fino ad arrivare al nostro paese, siamo sicuri serva ancora essere moderati? Possiamo permetterci di avere opinioni annacquate o poco incisive?

Fino a quando non si darà vita a una coalizione internazionale che dia le stesse soluzioni ai medesimi bisogni e che faccia del confronto e della collaborazione valori fondanti per la propria esistenza, non potremo parlare di un’alternativa. La risposta può essere una forza che sia sociale e Socialista, nel senso più nobile del termine.

È necessario fermare un sistema che punta ad autoalimentarsi delle proprie ceneri. Servono soluzioni nuove che facciano corrispondere i fatti alle parole e che pongano al centro temi e valori di giustizia sociale che uniscano un grande fronte popolare.

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Delle piccole luci in fondo al tunnel si vedono solo quando la sinistra torna a fare la sinistra. È il caso di una giovane newyorkese come AOC che parla di Socialismo in un paese come gli Stati Uniti e viene eletta nel nome dell’ambientalismo, del diritto alla salute e ad un giusto salario. È anche il caso di una piazza come quella di Bologna che virtualmente ha abbracciato tutta l’Italia e che a molti ha fatto battere il cuore. 

E adesso?

Oggi però serve fare un passo in più. Serve aprire le varie realtà aggregative costituite a quella che impropriamente viene chiamata “società civile”, ma che sarebbe più appropriato definire come l’insieme delle forme di socialità che non si riconoscono in un sistema che preferisce infilare la testa sotto la sabbia invece di affrontare a viso aperto la realtà e le sfide del nostro tempo. Si dovrebbe dettare l’agenda di un nuovo dialogo economico-politico e non più abbandonarsi ad un’eterna analisi della sconfitta. Serve rispondere, ma rispondere insieme, come un unico corpo che agisce abbandonando personalismi e si dedica agli altri, alla collettività.

Solo allora si potrà dire di aver creato un’alternativa concreta. Solo allora si potrà tornare a far innamorare i giovani della politica e dell’impegno sociale, riempiendo di voci e di idee le piazze, i circoli e i centri sociali di ogni angolo del Paese.

Si è iniziato a farlo, ma il tempo è tiranno quindi, per non rischiare la sindrome di Achille e la tartaruga, serve correre insieme e correre adesso.

Giuseppe Vito Ales

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Giuseppe Vito Ales

Classe 1993. Cresciuto tra le montagne di Piana degli Albanesi, sono un Arbëresh di Sicilia profondamente europeo. Ho studiato economia, relazioni internazionali ed affari europei tra Trento, Strasburgo, Bologna e Bruxelles per approdare infine a Roma. Tra le grandi passioni, la politica, l’economia internazionale e i viaggi preferibilmente con uno zaino sulle spalle e tanta voglia di camminare.
Credo che nel mondo ognuno di noi possa contribuire al miglioramento della collettività in modo singolare e specifico, proprio per questo non mi sta particolarmente simpatico chi parla per frasi fatte o per sentito dire e chi ha la malsana abitudine di parlare citando pensieri e parole d’altri. Siate creativi, ditelo a parole vostre!