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Potenziamento delle competenze: professionalità e interdisciplinarità

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Peter Sloterdijk, una voce molto influente nel panorama intellettuale europeo, individua il nostro tempo come un periodo di potenziamento delle competenze (cfr. Imperativo Estetico, Cortina editore, 2017). Per Sloterdjik la vita dell’uomo sulla terra fin ora può essere definita come «il millenario regno delle competenze». Insieme a questo potenziamento, dice Sloterdijk, si unisce il fatto che i settori di competenza specifica si stanno espandendo e istituendo come dotati di micro-settori interni i quali a loro volta hanno i loro competenti. 

Le competenze si fanno capillari e sempre più mirate e circoscritte, così che si diventa esperti di poco e ignoranti di molto. In questa forbice vive l’isolamento dell’uomo moderno, ma anche la sua più grande rivincita contro il sublime dinamico della natura. L’uomo esperto di poco vive comunque l’esperienza individuale della conoscenza specifica di un ambito. Padroneggiare un ambito vuol dire essere in grado di percepire il proprio agire nel prodotto di quell’ambito. Non fa comunque alcuna differenza ai fini della psicologia individuale essere esperti di poco o di molto. L’essere essenziali, ciò che interessa davvero alla persona, resta comunque rispettato: oggi è sempre più evidente che nessuno può essere esperto del suo ambito in modo essenziale e completo, perché oggi più che mai risulta chiaro che un ambito pratico sciolto totalmente da altri ambiti pratici non esiste mai.

Per questo motivo diventa essenziale al funzionamento, e cioè alla corretta gestione degli ambiti, che venga rispettata la loro interconnessione, in modo da facilitare la collaborazione interdisciplinare tra professionisti e esperti di settori diversi, ma oggi inevitabilmente connessi. Torna qui la vecchia tesi secondo cui il fisico ha bisogno del chimico e viceversa. Il meccanico ha bisogno dell’elettrauto e l’elettrauto ha bisogno dei programmi informatici e cioè degli informatici. Il respiro sincronico che stabilizza il progresso è oggi così essenziale contro il disfacimento della produttività umana al punto che un ambito non può sussistere senza un altro o altri. Poiché gli ambiti sono fatti di uomini professionisti o esperti di settore, a mantenere la sincronia che rende stabile il nostro progresso e che ci facilita così tanto la vita, è proprio la collaborazione interdisciplinare, come si dice in ambito scolastico-accademico, cioè il lavoro di concerto svolto da professionisti di settori connessi ad un unico prodotto, come può essere un’automobile. 

In questo tempo odierno di potenziamento delle competenze diventa sempre più complesso distinguere l’uomo dal professionista. Siamo lontani oggi dalla situazione marxiana dell’alienazione individuale nel lavoro nella proverbiale catena di montaggio di Modern Times di Chaplin. Oggi l’umanità della persona è un tema trattatissimo, si direbbe il tema politicamente più trattato. All’interno delle nostre società complesse contemporanee, molti individui a un certo punto del loro percorso di vita si trovano a essere convinti di dover addirittura scegliere, se restare uomo oppure diventare per sempre solo un professionista, come se le due cose si escludessero a vicenda. 

Il professionista è ormai diventato l’altro nella dimensione pubblica. Non che non ci siano altro che professionisti, ma le persone che nominiamo o con cui abbiamo a che fare sul serio nella vita di tutti i giorni sono in qualche modo professionisti di qualcosa. Il professionista si è fuso con l’esperto di settore, che a sua volta aveva già sostituito la figura archetipica del Maestro. Ora ogni esperto di settore è diventato un professionista del suo settore, così pure ogni professionista, per convenienza economica, riesce facilmente a diventare anche un esperto del settore di cui, in quanto già professionista, padroneggia tutte le peculiarità. 

In tutto ciò l’uomo non ha perso la sua umanità, che resta uguale e inviolata. Nè la sua capacità di adattamento e di addomesticamento dell’ignoto. Tuttavia gli uomini hanno smarrito l’umanità, semplicemente occorre che gli venga ricordata continuamente. Tutto resta inviolato, solo tutti debbono essere motivati ed è qui che si presenta nella sua visibilità più chiara l’eterno gap tra essere e dover-essere. Sembra come se i professionisti fossero oggi degli uomini che continuamente perdono di vista e scordano l’umanità che essi stessi sono. In questo modo siamo tutti vittime del più brutale calcolo e delle ristrettezze che le tattiche di sopravvivenza che mettiamo in atto nella quotidianità ci riversano contro. La facoltà umana che si sposa meglio con la competenza è la capacità di calcolo la quale, ricordiamo, è solo un mezzo per esercitare la vera facoltà che conduce e guida la competenza: la capacità di addomesticare l’ignoto. Questa è la capacità umana più originaria, secondo Aristotele i bambini iniziano a muoversi in un mondo ignoto e a chiamare cose diverse con lo stesso nome, per poi cominciare a diventare competenti del proprio mondo e cioè a padroneggiarlo. 

Una vita non come una partita di calcio, come voleva Albert Camus, ma una vita vissuta senza “schemi di attacco e di difesa” con gli altri, può essere un aiuto a farci ricordare della nostra umanità. Essere calcolatorii vuol dire solo esercitare la capicità del calcolo, che in quanto mezzo è volto al fine della vittoria personale e della sconfitta dell’altro. 

Pensiamo invece come tipo di condotta  ad un  abbandono vigile che non impedisce il discernimento tra bene e male, giusto e ingiusto. In questo tipo di vita la ragion pratica, in quanto capacità personale degli individui di distinguere il bene dal male, è conservata, sebbene sia totalmente rimossa quella condotta guerresca che si fonda sulla difesa e sull’attacco e con essa le energie spese nel calcolo-per-vincere, vengono spese in migliorare le attività e la produttività. Questo tipo di condotta guerresca, non solo appartiene ad un ethos arcaico e quantomai superato in vista della fratellanza, ma si fonda su una duplice illusione che fuorvia completamente le autentiche possibilità del consorzio umano. 

Da una parte un presunto attacco dall’altra una presunta difesa. Una psicologia imprenditoriale di tipo concorrenzialista è dove oggi si annida questo spirito guerresco, deleterio per qualsiasi limpida e fruttuosa collaborazione tra professionisti, si sposa però bene con il mercato libero delle democrazie liberali europee in cui viviamo; tuttavia essa scatena dinamiche in cui il pòlemos perde il suo valore positivo di fecondazione della possibilità da parte della volontà dei concorrenzialisti, per alimentare altri micro-conflitti e perdite di capitale umano che sbarrano la strada alla volontà stessa degli individui-imprenditori, i quali divengono così incapaci di realizzare quelle possibilità che pure essi scorgono dinanzi al proprio agire. Così, il pòlemos diventa stasis, guerra civile, ovvero incapacità di realizzare possibilità nuove. Il movimento della stasis, a differenza di quello del pòlemos, è assimilabile a un subbuglio, mentre il pòlemos è un movimento che genera e procede innanzi. Se il pòlemos si moltiplica cessa la produttività ma non l’operosità. Si inaspriscono gli animi, si lotta con maggior ferocia e energie, ma non si cessa mai di muoversi. L’inoperosità come condizione non alternativa al lavoro, è raggiungibile solo se l’istinto della psicologia imprenditoriale viene contenuto dall’usufrutto del prodotto scaturito dall’operosità. 

Tuttavia anche in questa condizione di equilibrio non si giunge mai a rimuovere il rovello della volontà del di più. Così occorrerebbe eliminare del tutto questa psicologia imprenditoriale concorrenzialista a vantaggio di un più libero ricircolo di informazioni, emozioni e non da ultimo, capitali.

Il liberalismo politico storico conserva oggi solo le basi teoriche fornite da Rawls o da Nussbaum, perché in effetti l’egoismo e il narcisismo sono, insieme alla spietata difesa personale, alla base delle relazioni tra professionisti di ambiti diversi. 

I grandi capitalisti sono esperti oggi in autotutela della propria rispettabilità e del buon nome del proprio marchio. I professionisti spesso sono solo strumenti in mano a non professionisti che li pagano per raggiungere i loro fini come si deve. più degli operai, ma in quanto esperti di settore, non ancora imprenditori. 

I professionisti oggi sono, quindi, una sorta di macchia nera nella società: a metà tra imprenditori e operai. Non sono imprenditori perché non dispongono di capitale e fintanto che non ne dispongono. Sono dipendenti, ma non operai, perché non risolvono il loro lavoro solo nel salario. Professionisti ed esperti di settore sono uomini, potremmo dire, più degli altri, perché stanno a metà tra colui che é salariato e chi dà i salari. In questa condizione sociale il professionista, se non diventa a sua volta uno dei due suoi “vicini”, può essere sé stesso in piena libertà (un vero “libero professionista”), esercitando il mestiere e facilitando l’equilibrio del progresso, garantito, come detto, dalla collaborazione tra professionisti di ambiti diversi. Può essere di insegnamento in questo caso proprio la filosofia, come scrivono Andrea Borghini ed Elena Casetta nel volume Filosofia della biologia (Carocci, 2013) : 

crediamo che la filosofia conservi un ruolo importante nell’aprire nuovi orizzonti di ricerca, nel porsi domande che possano vere una portata trans- e interdisciplinare. i filosofi sono tutt’oggi impegnati in collaborazioni interdisciplinari che riguardano praticamente tutti i campi della ricera accademica, dalla fisica, all’economia, la letteratura, lo sport, il diritto, l’ingengeria e persino la gastronomia.  (p. 28)

Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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