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«Race – il colore della vittoria»: Jesse Owens e la sua corsa verso l’uguaglianza

La pellicola si presenta come uno squarcio su tutte le politiche razziali e sulla loro ingiustizia. Quale vicenda porta sullo schermo il regista Stephen Hopkins e qual è il suo messaggio?

7 minuti di lettura

Con la pellicola Race – il colore della vittoria, il regista Stephen Hopkins porta sullo schermo la vicenda di Jesse Owens (interpretato da Stephan James, che ha recentemente recitato in Selma – la strada per la libertà), l’atleta americano che, durante le Olimpiadi svoltesi a Berlino nel 1936, vinse quattro ori nella corsa dei 100 e 200 metri, nel salto in lungo e nella staffetta 4 X 100. Lo sportivo rovinò così le aspirazioni del cancelliere Adolf Hitler, il quale guardava a quei Giochi come la possibilità di dimostrare la supremazia della razza ariana e la potenza della sua nazione: per questo, per la prima volta nella storia, aveva chiamato la regista Leni Reifensthal (impersonata da Carice van Houten) affinché riprendesse le gare e immortalasse le vittorie degli atleti tedeschi.

Race-il colore della vittoria
immagine tratta da: 3.bp.blogspot.com

Il regista ripercorre così le tappe che portano Owens alle Olimpiadi: egli è un giovane studente dell’Università dell’Ohio che, oltre a lavorare per mantenere la fidanzata e la sua piccola bambina, aspira a entrare nella squadra di atletica leggera. Grazie all’allenatore Larry Snider (interpretato da Jason Sudekis) e alla sua tenacia riesce a modellare dal punto di vista tecnico il suo talento naturale e, conquistato il podio alle competizioni con le altre università, ottiene un posto nella nazionale americana: è il 1935 e Berlino è alle porte. Ma due ostacoli si frappongono fra l’atleta e il coronamento del proprio sogno.

In primis il Comitato Olimpico americano che, preoccupato per la situazione politica interna tedesca  – le leggi razziali contro gli ebrei – discute in merito alla possibilità di non partecipare ai giochi, boicottandoli. Forse, con questa rinuncia, l’America dimostrerebbe su scala internazionale la sua disapprovazione per le azioni riprovevoli della Germania, magari ottenendo anche l’appoggio di altre nazioni, provocando così una brusca discesa della parabola di Hitler.

Nella scena in cui il Comitato Olimpico si riunisce, Hopkins svela l’ipocrisia degli Stati Uniti che, criticando aspramente e con falsa moralità le leggi razziali tedesche, sembrano dimenticarsi che sul loro territorio una buona percentuale della popolazione – quella afroamericana, per l’appunto – è soggetta alla ormai antiquata segregazione razziale e ogni giorno è costretta a subire discriminazioni di ogni genere, motivate dal diverso colore della pelle.

Anche Jesse, pur essendo un atleta famoso ed affermato in tutta la nazione, deve fare i conti con questa situazione quotidianamente, sia in università sia durante le competizioni sportive, nelle quali il pubblico spesso non fa il tifo per lui proprio per questa differenza. Ma Jesse, quando corre, riesce a dimenticare ciò: intorno a lui, in quei dieci secondi, tutto si fa più veloce e non ha più colore, egli davanti a sé non vede nient’altro che il traguardo da raggiungere. Agendo così, l’atleta riesce ad abbattere le prime barriere e a conquistarsi il calore del pubblico statunitense, ormai stregato dal «fulmine nero».

In secondo luogo si mette di traverso anche la comunità afroamericana, che chiede a Owens di non presenziare ai Giochi in segno di protesta. La sua comunità ha gli occhi puntati su di lui, che è visto come un esempio e ha per questo delle responsabilità: la sua partecipazione potrebbe venire erroneamente interpretata come favorevole alle politiche razziali tedesche (che impediscono agli atleti ebrei e di colore di prendervi parte) e, per riflesso, anche a quella americana. Inoltre, il delegato informa Jesse che una sua sconfitta non farebbe che conferire una maggiore risonanza all’ideologia ariana.

Dopo qualche titubanza iniziale, Owens vola a Berlino con una pressione che non proviene unicamente dalla sua appartenenza alla nazione americana, bensì anche da quella alla comunità afroamericana: non è solo la medaglia d’oro ciò cui ambisce, ma anche al riscatto del proprio popolo di cui è portavoce. Grazie a questo binomio, riesce a vincere quattro medaglie d’oro, polverizzando anche il migliore atleta tedesco Carl Luz Long, con cui instaura una profonda amicizia che durerà fino alla morte di quest’ultimo, avvenuta in Sicilia nel 1943 durante lo sbarco degli alleati. Il loro legame, uno dei più belli e sinceri nella storia dello sport, dimostra la vera essenza delle Olimpiadi e dello sport in generale: unire tutti gli uomini sotto il segno di una competizione sana ed amichevole, che sia volta a un confronto pacifico tra atleti e al rafforzamento del proprio corpo e del proprio spirito.

Jesse Owens e Carl Luz Long
Carl Luz Long e Jesse Owens, Berlino, 1936 immagine tratta da: www.berlin.de

Owens a Berlino vince una battaglia, ma non la guerra: il regista, infatti, rivela anche alcune note dolenti della sua vita che talvolta vengono ingiustamente dimenticate. Tornato dalla Germania, l’accoglienza che riceve è piuttosto fredda e l’allora presidente Franklin Delano Roosevelt, temendo un calo delle preferenze da parte degli stati del Sud nel corrente clima di elezioni, non lo invita alla Casa Bianca per consegnargli la Medaglia Presidenziale della Libertà, il massimo riconoscimento per un cittadino americano. Dovrà aspettare il 1976 e l’invito del presidente Gerald Ford.

La pellicola di Hopkins si presenta, dunque, come uno squarcio su tutte le politiche razziali e sulla loro ingiustizia che racconta la storia di un giovane che ha dimostrato al mondo intero il vero volto dello sport, che non ha nessun colore se non quello di tutti gli uomini, indipendentemente dall’etnia di appartenenza.

Nicole Erbetti

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