Nel teatro si parla spesso dell’animo umano, delle sue sfaccettature e di cosa spinga l’uomo a compiere determinate azioni. Si studia, si analizza, si replica tutto ciò che pensiamo concerni il pensiero e l’agire dell’uomo. Il teatro è nato e vissuto di questo, attraverso la catarsi: lo spettatore si nutre delle scelte – e delle conseguenze – dei personaggi per non vivere di prima persona.
Ma perchè si è reso quasi necessario un racconto riguardante il sopraumano e ciò che ci spinge ad esso? Perché nello scibile umano c’è anche questo, nel teatro e nelle diverse arti: la ricerca di qualcosa di più, dentro o fuori di noi. Cerchiamo qualcosa in più, di più grande, di più forte. Di più. Che ci mostri qualcosa in più o che ci renda qualcosa di più.
Lontani ma vicini: il pensiero del Seicento
Tanti autori hanno cercato, nel corso dei secoli, di spingersi oltre, nella propria vita o nelle proprie opere. Si è cercato di comprendere l’aldilà, di capire l’uomo, di fare tante cose che andassero oltre il proprio essere meri animali. Eppure ci sono due casi particolari che hanno sempre affascinato gli studiosi, sia per la loro vicinanza storica che per quella tematica, per quanto abbastanza lontani geograficamente.
In un mondo non globalizzato come quello del Seicento, due personaggi completamente distinti iniziano a comporre due opere che viaggiano su binari paralleli con solo trent’anni di differenza fra una rappresentazione e l’altra. Può sembrare un lungo lasso di tempo per noi, ma nella storia del teatro non è poi così lungo. Il nostro caso di studio pone davanti a noi due figure: Tirso de Molina e Christopher Marlowe.
De Molina e Marlowe: il paradiso e l’inferno
Il modo in cui questi due autori siano arrivati a produrre i loro capolavori più conosciuti sono agli antipodi. La loro storia personale in toto è completamente agli antipodi.
Tirso de Molina è, prima di tutto, un religioso, appartenente all’Ordine della Mercede. In questo antico ordine francescano, risalente ad almeno quattro secoli prima della sua nascita, Tirso comincia a scrivere, seguendo le orme del maestro e drammaturgo fondamentale Lope de Vega. La sua passione, però, è malvista e viene intimato di abbandonare penna ed inchiostro: eppure, non può farlo. Ha un piano per la sua prossima drammaturgia e il peso morale di quest’opera è troppo importante. L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra viene infine alla luce. La nascita di un archetipo che prenderà le vie più disparate, soprattutto quelle della dannazione sovraumana: don Giovanni.
Christopher Marlowe, invece, è ciò che di più lontano esista dalla vita religiosa. Kit, prima di tutto, è un mistero per tutti: non si sa se fosse una spia della regina, se sia stato Shakespeare sotto mentite spoglie per crearsi un rivale, se sia effettivamente esistito. Si hanno informazioni e tutte queste portano solo alla sua vita da libertino, che ripone anche nei caratteri dei suoi personaggi. Libertà, sessualità, sete di potere, avidità corrosiva. Tutto questo contesto di locande, ubriacature e vita da perfetto bohemien ante litteram, porta alla nascita de La tragica storia del Dottor Faust.
Dall’Inghilterra di fine Cinquecento alla Spagna di inizio Seicento, un desiderio di sfidare il Supremo e ottenere un potere sovraumano si dilaga per l’Europa, creano due dei due archetipi più conosciuti nella letteratura Occidentale.
Uno scontro sovraumano: sfidare Dio
La sfida al divino è presente in entrambe le rappresentazioni, ma la modalità in cui avviene e la morale che se ne vuole trarre è completamente opposta. Prendiamo prima in studio Tirso de Molina e il suo don Juan. Tanti racconti sono stati scritti, tanti diversi modi di raccontare la sua storia: film, opere teatrali, romanzi… il “don Giovanni” è un personaggio che tutti riconosciamo. Eppure, non è quello che Tirso aveva in mente.
Se parliamo di don Giovanni come seduttore e adulatore, non ci è molto chiara la radice da cui nasce questo personaggio. Il grande amante del sesso e della seduzione è nato grazie alla visione di Mozart, e soprattutto del suo librettista da Ponte. In questa versione d’opera, il don Giovanni diventa il libertino per eccellenza, virando più verso lo scandalo che la sfida al divino. Non prende una posizione contro Dio, ma contro la società e le regole imposte, laiche o meno.
Invece, nell’opera originale, l’obiettivo è ben diverso. Don Juan non nasce come libertino, ma come ingannatore: la seduzione è uno dei tanti giochi che fanno parte del suo grande portfolio di inganni. Le donne non sono l’obiettivo, il trofeo da conquistare, ma il mezzo per beffarsi dei potenti, loro padri o parenti.
Burlarsi del divino
Don Juan compie una scala di inganni e oltraggi, che ogni volta diventano sempre più osceni e imperdonabili. Prima a discapito di donne, poi di uomini importanti e alla fine verso Dio. In modo preciso, mirato, volontario, don Juan si prende gioco di tutto ciò che lo circonda, ma soprattutto della religione. Vuole sentirsi superiore, vuole fare tutto ciò che vuole perché pensa che il mondo sia nelle sue mani e, da giovane nobile ricco, nessuno può fargli niente. Sa di essere protetto e che tutti gli permetteranno di fare tutte le burle che preferisce. Tutti quanti: anche Dio.
Non gli importano le riprese di chi gli sta vicino, che tentano invano di fermarlo. Don Juan non desiste e anche davanti al convitato di pietra – il padre della sua ultima conquista che torna dalla morte per vendicarsi – continua la sua presa in giro. Non ha paura della morte, non ha paura di Dio: lui è superiore, lui è sovraumano.
Ma come sappiamo bene, le hybris porta solo guai e le sue convinzioni cadono tutte insieme, nel momento in cui il Commendatore, pietra fredda tornata dalla morte, prende la sua mano e lo trascina all’Inferno, tra le fiamme. Fiamme che aveva beffeggiato, credendole ridicole e inesistenti, avvolgono don Juan e lo riportano nel suo angolo di giustizia. Non è mai stato nulla, se non un semplice ragazzino sbruffone. Il messaggio dell’autore è, quindi, morale, come un bravo religioso del Seicento comanda: bisogna stare attenti alle proprie azioni, soprattutto se intaccano la grandezza divina.
Alla fine, il sovraumano, per don Juan, non è mai stato veramente raggiunto e per questo ne paga le pene, ora e per sempre.
Voltare le spalle al divino: un potere oltre l’umano
Se uno non ci riesce, può provarci il secondo. Parliamo quindi di Faust, il grande studioso. Anche Faust è stato tramandato in lungo e in largo, tra i vari paesi e i diversi mezzi di comunicazione. Il più celebre resta l’opera mastodontica di Goethe, certo, ma non è lui il primo che cerca di ammaliare il proprio pubblico addentrandosi nella mente di Faust.
Nella prima apparizione di Faust, nell’opera di Christopher Marlowe, lo vediamo come un interessante maestro che vuole approfondire tutte le scienze per ottenere la conoscenza suprema. Il potere che Faust rincorre non è un potere materiale, di soldi o conquiste territoriali, ma è un potere astratto e molto più nobile, almeno sulla carta. Non si sporca le mani – o l’anima – per delle banalità terrene, ma per qualcosa di più grande. Qualcosa che lo avvicini, o lo eguagli, a Dio. Come un modello Adamo, Faust cerca la conoscenza e per questo ricorre a tutto ciò che gli viene offerto.
Lo studio è il primo passo, ma non basta. Faust ormai è abile ed esperto in tutte le arti, non ci sono più manuali o maestri che possano insegnargli qualcosa di nuovo, qualcosa di più. Nessuno conosce i segreti dell’universo, della vita, di tutto… nessuno se non Dio. E se con Dio Faust non può parlare, allora non gli resta che tentare un’altra strada, quella opposta.
Cadere nel peccato
Se don Juan aveva scelto una via più graduale per arrivare alla dannazione per aver cercato di sovrastare il proprio essere mero umano, Faust invece parte subito col botto. Con il famoso patto con il Diavolo – che in realtà è Mefistofele e non Satana in persona – si suggella immediatamente la sua dannazione. Può vederlo o non vederlo – o far finta di non vederlo – ma prima o poi Mefistofele avrà la sua anima e da lì all’eternità sarà suo schiavo per sempre. A patto di avere la conoscenza, certo, ma con le regole che il diavolo in questione pone.
Faust, infatti, cade subito nella tentazione sovraumana, cede immediatamente al desiderio di andare oltre e sottoporsi al patto. Non arriva gradualmente al punto di non ritorno, ma vive oltre questo per tutta la durata della rappresentazione. Nella sua storia si tende a dimenticare – come anche Faust stesso tende a dimenticarlo – che non si sta aspettando un colpo di scena, ma semplicemente la fine di un conto alla rovescia. Perchè alla fine, Faust verrà preso, volente o nolente. Gli anni promessi a Mefistofele terminano e non può fare nulla per impedirlo. La conoscenza che ha ottenuto, comunque fallace perchè dettata dalle regole del diavolo e non da quelle di Faust, non può salvarlo dal fatto che nel suo studio viene trascinato dai demoni verso l’Inferno per sottoporsi a un’eternità di soprusi.
Sentirsi umani
Questa non è la sede per trarre sermoni e prediche dalle storie di don Juan e Faust. Lasciamo al lettore il compito di immaginare da sé quello che, secondo lui o lei, voglia dire provare ad andare contro i limiti umani e trovare, in entrambi i casi, un’eternità di sofferenze.
I tempi sono cambiati, così come le convinzioni e i contesti in cui viviamo e leggiamo queste storie. Le viviamo in modo diverso a teatro, al cinema, attraverso un libro o anche nella vita vera. Eppure, quello che rimane dalle catarsi che queste storie ci propone, almeno così si può pensare, è il profondo e intrinseco e diremmo anche meraviglioso senso di essere umani. Solo esseri umani, che tentano, provano, armati di unghie e denti, per essere qualcosa di più, ma che sbagliano e non comprendono che essere di più è già insito nell’umano. Il desiderio di andare oltre è parte integrante della natura umana e già questo ci rende, forse, sovraumani. Potere andare oltre, allora, può accadere solo accettando e abbracciando il proprio essere semplici, animali, umani.
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