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saggi naturalistici

Cinque saggi da leggere su natura, ecologia e filosofia

La natura, l'ambiente, l'ecologia. Concetti ricorrenti, ma che oggi ve li proponiamo in un'ottica diversa. Ecco a voi cinque saggi naturalistici per riflettere sui fenomeni naturali che viviamo e ci circondano.

11 minuti di lettura

No, non la solita lista di tirate ambientaliste per evitare la fine, l’apocalisse, il disastro ambientale. Proponiamo cinque bei saggi naturalistici, tutti di grande spessore teorico, per vederci un po’ più chiaro in questi tempi di crisi, decidere di cambiare, se stessi, gli altri, il mondo.

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Aldo Leopold, «Pensare come una montagna. A Sand County Almanac»

Tra i primi saggi naturalistici che vi consigliamo è quello di Aldo Leopold. Leopold è tra i padri del conservatorismo americano. Fu professore e insieme guardia forestale. Scrisse questo libro, che è un capolavoro, lungo il corso di una vita; libro nel quale sono alternate riflessioni filosofiche sulla bellezza della wilderness, della natura selvaggia, a brevi saggi naturalistici. Il più rilevanti di tutti i saggi naturalistici è quello che dà anche il nome all’edizione italiana, pubblicata grazie allo splendido lavoro di PianoB edizioni, Pensare come una montagna (acquista), nel quale Leopold invita il lettore a disincarnarsi dalla propria prospettiva per potersi innalzare a quella di un massiccio montuoso, con i suoi tempi lunghissimi, i suoi equilibri invisibili ma concreti, il brulicare di forme di vita che ne popolano le pendici. Il saggio di Leopold, una via di mezzo tra memoir e resoconto scientifico, ha inaugurato la grande tradizione filosofica dell’etica ambientale, che in Italia si studia poco, ma altrove è una disciplina affermatasi già da anni. Ma il valore dell’opera di Leopold non è solo l’aver contribuito ad accendere la consapevolezza per l’equilibrio ecologico, per l’importanza della salvaguardia della natura; il suo valore sta soprattutto nel fare della natura un oggetto di contemplazione estetica. La natura è bella, e la bellezza detta legge: ciò che è bello non può essere sfregiato, distrutto, rovinato, come è orripilante immaginare la Nike di Samotracia possa venir sfregiata, distrutta, rovinata. Esercitare l’occhio a questa modalità del contemplare, a questa bellezza vicina ma nascosta, trasformando ad un tempo se stessi, il proprio agire, la propria vita: ecco cosa Leopold ci ha indicato.

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Maurice Merleau-Ponty, «La Natura»

Sono le lezioni tenute dal grande filosofo francese Maurice Merleau-Ponty al Collège de France negli ultimi anni ’50 del secolo scorso. In esse Merleau-Ponty abbozza una nuova definizione della nozione di «Natura», ripercorrendone ad un tempo l’origine e la storia. Quello di Natura (acquista) è un concetto che si sviluppa a partire dalla Modernità, con Cartesio, il quale, attraverso la cesura metafisica che separa mente e corpo, res cogitans e res extensa, fa della natura un meccanismo estraneo all’uomo, un tutto materiale inesauribile, sfruttabile, violentabile. A questa concezione, che lentamente oggi sta mostrando tutte le sue debolezze, Merleau-Ponty ne propone una alternativa, elaborata a partire dal confronto con la grande stagione romantica della Naturphilosophie, con Goethe e soprattutto Schelling; una natura considerata come quel pre, quel passato mai scalzabile che sopravanza ogni formazione organica, animale, umana, e che dunque ci vincola ad un residuo, per l’appunto, naturale, terreno, materiale. Noi, in fondo, siamo parte della natura – ma come? In un rapporto di lateralità, scrive Merleau-Ponty, o meglio, in un rapporto chiasmico, di incrocio tra la dimensione passiva e attiva dell’agire, del peso naturale-animale sul quale si innalza, senza svincolarsi, la prassi umana. Le intuizioni di Merleau-Ponty non si fermano qui, ma rielaborano, alla luce delle più recenti acquisizioni nel campo della meccanica quantistica, una nuova idea di natura, che mette in questione e ridimensiona tutto ciò che la tradizione ci ha consegnato. Ecco dove inizia il lavoro del filosofo: pensare ciò che resta impensato nella scienza naturale; dare un nuovo volto a ciò che chiamiamo natura.

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Donna Haraway, «Chthuluchene. Sopravvivere su un pianeta infetto»

Il titolo del libro è impronunciabile, ma va bene così. Geniale filosofa della scienza, innovativa pensatrice del cyborg, importante figura negli studi femministi, la Haraway tenta in questo saggio naturalistico coraggioso (acquista) di pensare un mondo dopo la sua fine – o meglio, un modo dopo quella fine che ha recentemente preso il nome di Antropocene. L’Antropocene è l’era geologica nella quale l’intervento dell’uomo è diventato così massiccio e rilevante, da aver inaugurato un nuovo tempo storico. L’Antropocene è la fine del mondo, la fine del mondo, la fine di un mondo. Come pensare, allora, il mondo che deve venire, del quale l’umano non è più il centro? Con un linguaggio immaginifico, speculativo, che bagna nella fantascienza e negli studi di genere, Haraway tenta di pensarlo, il mondo, e lo fa in maniera provocatoria, ricordandoci le radici ctonie che ci collegano alla terra, della quale guardiani veri e simboli emblematici sono aracnidi, polipi, figure tentacolari, mostruose, capaci di convivere con il disagio di un mondo alterato.

Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, «La nuova alleanza: metamorfosi della scienza»

Ilya Prigogine vinse il nobel per la chimica nel 1979 per i fondamentali contributi nello studio delle cosiddette strutture dissipative, quei fenomeni  – che stanno alla base della vita – nei quali il mantenimento dell’equilibrio si produce attraverso un dispendio di energia. Isabelle Stengers, che ai tempi de La nuova alleanza (acquista) era dottoranda a Bruxelles sotto la guida dello stesso Prigogine, ha scritto saggi importantissimi di filosofia della scienza, occupandosi inoltre, negli ultimi decenni, dei problemi legati alla crisi climatica. La nuova alleanza è un testo programmatico rispetto ai precedenti saggi naturalistici: si propone di riformare la scienza attraverso un ridimensionamento dei rapporti tra i diversi ambiti del sapere. La base di quest’operazione è indicata dai due autori in una nuova concezione della natura, la quale, dopo Bohr, Heisemberg, Schrodinger e compagnia, deve perdere quell’aura di staticità e fissismo che invece le aveva donato Newton. Il testo potrebbe essere letto insieme a quello già suggerito di Merleau-Ponty (il quale peraltro è citato ne La nuova alleanza) proprio perché, al di là dell’obbiettivo squisitamente epistemologico, permette anch’esso di elaborare un’idea di natura nuova, una natura poetica, poietica, creatrice e traboccante di vita, della quale l’uomo non è altro che un ripiegamento su se stessa, e non un atollo impegnato a combattere tra il caso e la necessità.

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Jason W. Moore, «Antropocene o Capitalocene?»

Storico dell’ambiente e professore di economia politica a Binghamton, nello stato di New York, Moore è una delle voci più autorevoli per quanto riguarda la critica al concetto, oggi assai di moda, di Antropocene (acquista) . L’abbiamo già detto nel saggio naturalistico precedente: l’Antropocene sarebbe quell’era geologica successiva all’Olocene, caratterizzata da un massiccio e riconoscibile intervento umano sulla terra. Secondo Moore, se la nozione geologica –stratigrafica – di Antropocene funziona ed è utile in maniera euristica (cosa, peraltro, sulla quale i geologi discordano), altrettanto non vale per la nozione che Moore definisce alla moda di Antropocene: quella invalsa negli studi di scienze sociali ed umane, quella che vede nel anthropos, l’uomo, la forza geologica capace di introdursi nella storia, alterandone i tempi lunghi dell’evoluzione ambientale. Sì, dice Moore – ma quale uomo? Non certo l’eschimese o l’indiano jivaro, ma, piuttosto, l’uomo occidentale, o, ancora meglio, il capitalista, il capitalismo: è il capitalismo che crea, sfruttandola, quella natura che l’immagine dell’Antropocene ci presenta (ancora) come separata dall’uomo. Allora bisognerà, ed è questo che tenta Moore, disfare quei fili intrecciati sotto il concetto univoco ed equivoco di Antropocene, un concetto che confonde prima ancora di rendere ragione di un fenomeno che è, primariamente, economico, legato a un determinato modo di produzione, a una determinata dinamica scambistica e non, astrattamente, all’uomo. Ecco che anche la crisi ecologica assume un aspetto nuovo : non più quello di un destino umano, troppo umano, in qualche modo inevitabile, ma il prodotto più maturo della modernità.

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Immagine di copertina: Foto di Riccardo Chiarini su Unsplash

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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.