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Don milani

La scuola di Don Milani, tra innovazione pedagogica e filosofia

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8 minuti di lettura

Tra le altre cose, la Mondadori ha creato una collana editoriale chiamata I Meridiani, pregiato calco di un’ altrettanto pregiata collana, la francese Bibliothèque de la Pléiade, edita da Gallimard. I Meridiani, lucidi volumi in pelle dalla copertina blu solcata da colonnine dorate, accolgono le opere di autori che, come suggerisce il nome della serie, hanno segnato il loro tempo e indirettamente anche il nostro. L’ecumene della letteratura mondiale è riunita fra le sottilissime pagine dei Meridiani e da pochissimo è venuto ad aggiungersi ai grandi di tutti i tempi Lorenzo Milani.

Usciti ad aprile, i due volumi che raccolgono tutte le opere del prete di Barbiana contengono oltre alla letteratura più consueta, anche i carteggi e gli inediti finora mai visti di Lorenzo Milani, per tutti Don Milani.

Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti nasce a Firenze nel 1923 e già nel cognome compare la fama di una famiglia di eruditi e grandi studiosi. Filologi, egittologi e psicanalisti formano i rami più alti del suo albero genealogico; i libri riempiono gli scaffali di casa Milani e Lorenzo cresce lontano dalle preoccupazioni economiche. Appassionato di poesia e letteratura, ma non una cima tra i banchi di scuola, Lorenzo si converte alla fede cattolica nel 1943. Ha vent’anni ed è ordinato sacerdote di lì a poco. Gli anni del seminario sono duri, pieni di conflitti con una Chiesa che Lorenzo, dal ’47 Don Lorenzo, vede retrograda e ormai vecchia, lontana dalle preoccupazioni della modernità. Il suo rapporto con i superiori è difficile e fastidiosa la sua presenza.

Il primo incarico è a San Donato di Calenzano, vicino a Firenze, dove si occupa di una scuola popolare per operai; poi, dal ’54, ancora più lontano… più Milani se ne sta alla larga da Firenze meglio è. La decisione è presto presa: andrà a Barbiana, sperduto paesello di montagna sul Mugello, in provincia di Vicchio. Qui Milani, parroco, si ritrova fra le mani un branco di ragazzi, da giovani ad adolescenti, impegnati nei campi, che di libri e scuola si immaginavano soltanto. Le braccia a lavorare ed aiutare in famiglia, non fra i banchi. Ma la bestia che più spaventa il giovane prete, la lacuna che davvero separa i suoi ragazzi contadini dai giovani di città è l’analfabetismo.

Niente ricreazione, niente vacanze, niente tempo libero nella scuola di Don Milani, insediata fra le mura della parrocchia: si inizia alla mattina e si finisce col tramonto. È questa l’unica soluzione per sottrarre i ragazzi di Barbiana dal pericolo del mutismo analfabeta: l’esperimento pedagogico di Don Milani ha come fine l’istruzione, certo, ma soprattutto l’indipendenza dei ragazzi, che esige la padronanza della lingua, della «Parola», come la chiama Milani.

La Lettera a una professoressa, indirizzata ad una professoressa fittizia e composta dal parroco insieme ai ragazzi di Barbiana, oltre che essere un raro esempio di chiarezza stilistica, è il sunto del lavoro pedagogico, e politico, di Don Milani. Tra le tante belle cose che ci si trovano dentro (la critica, divenuta manifesto, di un sistema scolastico decrepito; le proposte di Don Milani per una scuola che non privilegi i migliori, ma impari a seguire gli ultimi; la fondamentale importanza del lavoro collaborativo e, soprattutto, dell’impegno politico che deve accompagnare ogni pagina studiata, ogni ora passata in classe), trovano esposizione, implicitamente,  le idee filosofiche che mossero l’operato di Don Milani.

Tutti  ricordiamo i primi passi del Vangelo di Giovanni, dove è scritto:

«In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Ora, l’intero Prologo del Vangelo di Giovanni si muove nella reciproca corrispondenza tra finitezza e infinità: Dio, che è Verbo, infinito, si rende finito nell’incarnarsi in Gesù, uomo («E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria […] pieno di grazia e di verità»). 

Il concretarsi dell’immateriale (il Verbo) nell’incarnato corporeo, è l’istante in cui finito e infinito si toccano. Il pensiero di Don Milani appare come una reinterpretazione di questa prima parte del Vangelo di Giovanni, laddove Dio, come Verbo, è l’infinito di cui si appropria l’analfabeta, rendendosi libero dalla schiavitù del mutismo. «È solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero basta meno. Importa che parli». La Parola incarnata è Dio che si fa uomo ogni volta, ogni volta in un bambino diverso; questo è ciò che Don Milani chiama «diventare sovrani».

Quella di Don Milani può ben chiamarsi una teologia della liberazione, e libero è il padrone della Parola. Questa l’unica ambizione degna di essere chiamata tale, tutto il resto seguirà da sé e non bisogna preoccuparsene: «neanche per la scienza non ti dare pensiero. Basteranno gli avari a coltivarla. Faranno anche le scoperte che servono per noi. Irrigheranno il deserto, caveranno bracioline dal mare, vinceranno malattie», ma prima di tutto la Parola.

Il dibattito su Don Milani è ora più che mai aperto. Ricorsi i 50 anni dalla sua morte (era il ’67 quando il giovanissimo prete si ammalava gravemente e, di lì a poco, moriva), Don Milani resta fra le figure di riferimento dei movimenti sessantottini. La sua pedagogia, brillante, innovativa, eterodossa, è stata criticata ed accusata, ma insieme celebrata e accolta con entusiasmo. Nonostante ciò, la Lettera a una professoressa rimane il manifesto di un coraggio e di un umanità rari, e con questi di un esperimento pedagogico che, lungi dall’esser stantio (come la Chiesa e la scuola che Don Milani vedeva vecchie), porta idee nuove e sempre attuali.


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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